giovedì 23 dicembre 2010

Il tradimento degli studenti

I vari Alemanno, La Russa e Gasparri sono stati traditi: gli studenti hanno lasciato i palazzi della politica con le loro truppe corazzate a difesa per manifestare nelle periferie, luoghi alle prese con problemi non meno gravi di quelli che si trova ad affrontare l'università. Per quanto avessero promesso di stupire, forse nessuno poteva immaginare una cosa simile.
Qualche mese fa, in questo blog ci si chiedeva se la FIOM sarebbe riuscita a non farsi intrappolare dal teorema-Marchione per allargare la battaglia trascendendo il campo dell'industria automobilistica. Oggi lo stesso interrogativo si può riproporre agli studenti.

giovedì 2 dicembre 2010

Ente Nascosto Idrocarburi

Dei cablogrammi dell'ambasciatore USA in Italia Spogli, i media per lo più hanno diffuso degli stralci dove il premier Berlusconi veniva dileggiato per la propria vanità e presunzione, e dove si sospettavano i legami troppo stretti intessuti con leader ostili come Putin e Gheddafi, tutti fatti ampiamente di dominio pubblico. Solo pochi organi di stampa (il Fatto, ad esempio) hanno riportato questo l’analisi che Spogli faceva dell’operato dell’Eni:

Eni, la più importante società energetica parastatale, ha un immenso potere politico; la sua strategia di business si è concentrata su complessi ambienti geopolitici, solitamente considerati eccessivamente rischiosi da molti dei suoi concorrenti internazionali… Anche solo a giudicare dalla stampa, si può pensare che il primo ministro Berlusconi garantisca al suo presidente, Paolo Scaroni, tanto accesso quanto al suo proprio ministro degli esteri… Durante un evento diplomatico nel 2007, una conferenza sull’Asia centrale, i rappresentanti dell’Eni e di Edison ebbero 30 minuti ciascuno per parlare, mentre i quattro ministri degli Esteri e i cinque vice ministri di cinque stati centro asiatici furono infilati tutti in un’ora sola. C’è il sospetto che l’Eni mantenga a libro paga alcuni giornalisti.
Politici di entrambi gli schieramenti ci hanno riferito che il rapporto tra l’Eni e il governo non si limita alle questioni energetiche. Un membro dell’oppossizione di centro sinistra (PD) ci ha riferito che il personale dell’Eni in Russia supera è maggiore di quello dell’ambasciata italiana... A Roma, l’Eni mantiene forti contatti con esponenti del parlamento, più di quanto faccia il ministero degli esteri.

sabato 13 novembre 2010

Il tramonto del blog?

Alcune ricerche riportano un calo nella frequentazione dei blog, che solitamente si ritiene dovuta alla massiccia influenza dei social network. Io penso che le cause siano eventualmente anche altre.
Bauman irride i blog ritenendoli uno strumento adatto per compiacere il narcisismo, ma bisognerebbe anche chiedersi se non vengono usati talvolta per sfogare sentimenti repressi, anziché per comunicare idee e confrontarsi. In questi ultimi tempi ho partecipato ai blog de Il Fatto Quotidiano, specialmente quelli che affrontano tematiche all'insegna dell'energia (tenuti da Pallante e Agostinelli). Le risse verbali nuclearisti-non nuclearisti sono sempre all'ordine del giorno, anche quando i post non tratterebbero propriamente questo argomento. Il Fatto Quotidiano (giustamente) non opera alcuna forma di censura o di moderazione, ma così facendo il degrado della conversazione è assicurato: non ho mai sopportato chi insulta o fa dell'ironia spinta trincerandosi dietro nickname, la discussione 'colorita' ci può stare ma deve essere o faccia a faccia o quantomeno tutti devono sapere (non solo i gestori del blog) chi li sta attaccando.
Il blog di Grillo non è messo troppo meglio. Da quando è nato il Movimento 5 Stelle, gli utenti sono diventati molto più omogenei, e spesso i commenti sono solo slogan, il confronto vero e proprio è molto ristretto. Del resto, quando si superano i 250 commenti, come si fa a seguire una discussione? Il metodo di votare le migliori risposte premia la maggioranza e l'omologazione del pensiero.
In definitiva, ritengo che i blog possono ricoprire la funzione di discussione per cui erano stati pensati se si mantengono in una dimensione umana, cosa che in gran parte si è persa. Ma come mezzo per la conoscenza o addirittura per una nuova democrazia, sono quanto mai discutibili.

martedì 2 novembre 2010

Washington Tea Party

Dopo il trionfo in Brasile di Dilma Rousseff, questa sera assisteremo a quella che verrà definita la catastrofe di Barack Obama, e che invece sarebbe meglio imputare al Partito Democratico, incapace di dare una sterzata definitiva alle politiche di Bush e solidale con il proprio presidente solo quando si trattava di salvare le banche. Nel momento più delicato per i futuri equilibri planetari, il Congresso americano sarà ostaggio dei fanatici del Tea Party, versione se possibile ancora più rozza e inconcludente dei già impresentabili neoconservatori. Cosa sarebbe successo invece se si fosse lottato per una vera riforma sanitaria, per una politica energetica ispirata al risparmio e alle risorse rinnovabili, per una soluzione pacifica dei conflitti che vedono impegnati gli USA, Afghanista su tutti? Non è dato saperlo. O forse sì.

mercoledì 20 ottobre 2010

Rivoluzione di ottobre

Sul Fatto Quotidiano oggi in edicola, Flore d'Arcais si chiede se esiste qualcuno capace a livello politico di recepire le istanze della manifestazione di sabato scorso della FIOM a Roma, le quali andavano ben al di là delle semplici rivendicazioni dei metalmeccanici. Io allargherei notevolmente il discorso, includendo anche le proteste a Terzigno contro l'apertura di una nuova discarica e quelle dei pastori sardi a Cagliari. Questi gruppi non possono contare sul sostegno del maggiore sindacato italiano o di una formazione politica, ma anch'essi si battono contro logiche dell'economia che si propongono di stravolgere e compromettere la vita di intere popolazioni: chi li può sostenere? Di certo non chi predica crescita economica, modernità e sviluppo, qualunque colore politico abbia.
Lo stesso giorno della manifestazione della FIOM, alcuni importanti realtà come Movimento per la Decrescita Felice, Alternativa, Centro Nuovo Modello di Sviluppo e Movimento Zero si sono incontrati a Torino per cercare di intrecciare un percorso comune al fine di costituire un nuovo soggetto politico: può essere l'inizio di una riscossa o di una grande illusione.

giovedì 14 ottobre 2010

Progettiamo il futuro

Relazione di Maurizio Pallante presso il congresso “Progettare il futuro - Lo sviluppo della sostenibilità ambientale come volano di un nuovo ciclo economico”; Perugia, 8-9-10 ottobre 2010.

Una delle obbiezioni che più di frequente viene avanzata alla decrescita è che provocherebbe una diminuzione dell’occupazione. A maggior ragione oggi che le economie dei paesi industrializzati stanno attraversando una crisi da cui non sanno come uscire. Questa obbiezione non regge alla prova dei fatti, come cercherò di dimostrare, mentre invece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, se correttamente intesa e guidata, consenta, noi crediamo che sia l’unico modo per consentire, un rilancio dell’occupazione e un superamento della crisi con l’apertura non solo di un nuovo ciclo economico, ma di una fase storica più avanzata di quella che abbiamo sin qui vissuto. Le aziende e i professionisti presenti in questi giorni sono la prova che queste affermazioni non sono campate per aria, ma si fondano su dati reali. È a partire dalle loro esperienze sul campo che il nostro Movimento si propone di fornire il suo modesto contributo per formulare una proposta di politica economica e industriale capace di valorizzare quanto stanno facendo, di favorire lo sviluppo di sinergie tra loro, di ampliare le loro quote di mercato, di estendere il numero dei cittadini che chiedono i loro prodotti e i loro servizi.

Prima di entrare nel merito credo che sia utile chiarire che cos’è la decrescita perché molti associano a questa parola un’idea negativa di regresso, diminuzione del benessere, ristrettezze economiche. Que-sta interpretazione si fonda sulla convinzione che il prodotto interno lordo misuri la quantità dei beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un sistema economico e produttivo nel corso di un anno. La crescita del pil, se così fosse, misurerebbe l’aumento del benessere, la decrescita la sua diminuzione. In realtà il prodotto interno lordo è un indicatore monetario e, come tale, può misurare solo il valore economico degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro. Ovvero, delle merci. Ma non tutte le merci, non tutti gli oggetti e i servizi che si scambiano con denaro sono beni: rispondono a un bisogno e fanno aumentare il benessere. Per sgombrare il campo da trite e ritrite considerazioni psicologiche, i bisogni a cui si fa riferimento non sono soggettivi, ma oggettivi. Un edificio mal costruito, che consuma 20 metri cubi di gas per il riscaldamento, fa crescere il pil più di un edificio ben costruito che ne consuma 5, ma 15 metri cubi su 20, i ¾ del gas utilizzato, sono una merce che, tra l’altro, si paga sempre più cara, non sono però un bene perché non servono a scaldare l’edificio. Non rispondono a nessun bisogno, non hanno nessuna utilità, provocano anzi un danno perché contribuiscono ad aggravare inutilmente l’effetto serra. La decrescita non è una diminuzione del pil tout court, ma una riduzione guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ossia degli sprechi. Per ridurre la produzione di merci che non sono beni occorrono tecnologie più avanzate di quelle attualmente in uso. Da ciò deriva la necessità di creare occupazione in attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili, perché non solo riducono il consumo di risorse che stanno diventando sempre più rare, si pensi in particolare alle fonti fossili, ma anche gli effetti negativi sugli ambienti che inevitabilmente ne derivano sia in fase di prelievo, sia in fase di utilizzazione. Di conseguenza, la decrescita non ha niente a che vedere con la recessione. Tra la decrescita e la recessione c’è un rapporto analogo a quello tra chi mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta per stare meglio e chi è costretto a farlo perché non ha abbastanza da mangiare.

Queste precisazioni consentono di argomentare tre tesi che apparentemente sembrano paradossali, ma in realtà forniscono gli strumenti per impostare una politica economica e industriale in grado di creare occupazione e riavviare il ciclo economico. La prima è che la crescita non ha mai creato occupazione. La seconda è che le politiche economiche tradizionali, finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la spesa pubblica e la riduzione delle tasse, stanno dimostrando di non essere più in grado di farlo. La terza è che la decrescita guidata della produzione di merci che non sono beni è l’unico modo di creare occupazione in questa fase nei paesi indu-strializzati. Che cioè il superamento della crisi economica si può realizzare solo sviluppando le tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse, riducendone il consumo e, di conseguenza, gli impatti ambientali che generano.

L’affermazione che la crescita economica sia indispensabile per far crescere l’occupazione viene ripetuta come un mantra benché, a differenza del mantra, non abbia lo scopo di liberare la mente dalla realtà illusoria, ma di avvilupparla in una illusione irreale, priva di riscontri empirici e di fondamenti teorici. Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (valori a prezzi 1990), la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998). Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola dapprima dall’agricoltura all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, anche dall’industria ai servizi.

Se dalla constatazione dei dati si passa alla ricerca delle cause, non è difficile capire che in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioni qualitative della loro utilità, il mercato impone che le aziende accrescano la loro competitività (secondo mantra rovesciato) investendo in tecnologie labour saving per aumentare la produttività (terzo mantra della serie), che tradotto in italiano significa: produrre sempre di più con sempre meno addetti. Cosa che a livello microeconomico può risultare vantaggiosa, ma a livello macroeconomico comporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una crescita dell’offerta. Un problema non di poco conto che, se non ci si nasconde dietro il risibile alibi di imputare un carattere prevalentemente finanziario alla crisi, o alle cause che l’hanno generata, è la causa reale della crisi economica, produttiva e occupazionale che stiamo vivendo.

La sua gravità è accentuata dal fatto che s’intreccia con una crisi energetica e ambientale altrettanto grave e molto vicina al punto di non ritorno, ammesso che non sia già stato superato. Da studi re-centissimi del Pentagono e del Ministero della difesa tedesco risulta che il picco di Hubert della produzione petrolifera sia stato raggiunto. Secondo le valutazioni dell’IPCC, se non si ridurranno le emissioni di CO2 del 20 per cento entro il 2020, in questo secolo l’aumento della temperatura terrestre supererà i 2 °C e comincerà ad autoalimentarsi sfuggendo a ogni possibilità di controllo umano.

Per far fronte alla recessione, i governi hanno adottato le tradizionali misure di politica economica a sostegno della domanda: riduzione della pressione fiscale; deroghe alle norme urbanistiche per incentivare la ripresa dell’attività edilizia; incentivi all’acquisto di beni durevoli: automobili, mobili, elettrodomestici; copertura dei debiti delle banche con denaro pubblico (700 miliardi di dollari negli Stati Uniti); grandiosi piani di opere pubbliche. L’ultimo, in ordine di tempo, approvato dal presidente Obama, ammonta a cinquanta miliardi di dollari per strade e ferrovie (la Repubblica, 7 settembre 2010, pag. 21). Queste misure non solo non sono state in grado di rilanciare il ciclo economico e ridurre la disoccupazione, ma hanno fatto crescere i debiti pubblici al limite dell’insolvenza. Per scongiurare questo pericolo i governi hanno bruscamente capovolto la politica economica, adottando drastiche misure di contenimento della spesa statale che tolgono ossigeno alla ripresa economica e alla prospettiva di ridurre la disoccupazione.

Resta difficile capire come si sia potuto credere e far credere che incentivando la domanda di prodotti che hanno saturato da tempo il mercato si potesse far ripartire la crescita economica. In Italia negli anni sessanta del secolo scorso le automobili circolanti erano 1.800.000. Nel 2008 sono state 35 milioni. Se nei decenni passati il settore aveva grandi possibilità di espansione, oggi non ne ha più. Ha riacquistato un po’ di slancio con gli incentivi alla rottamazione, ma appena sono finiti la domanda di nuove immatricolazioni è crollata quasi del 30 per cento da un mese all’altro. A livello mondiale l’eccesso della produzione automobilistica è circa un terzo del totale: 34 milioni di autovetture all’anno su 94 milioni. La scelta di puntare sul rilancio della produzione automobilistica non è solo si è dimostrato fallimentare dal punto di vista economico, ma è anche irresponsabile dal punto di vista energetico e ambientale perché l’autotrasporto (autovetture e camion) assorbe in Italia circa un terzo di tutte le importazioni di fonti fossili. Contribuisce per un terzo alle emissioni di CO2, che sono la causa principale dell’innalzamento della temperatura terrestre.

Negli anni sessanta del secolo scorso anche il settore dell’edilizia presentava grandi possibilità di espansione, sia perché era necessario completare l’opera della ricostruzione post-bellica, sia perché erano in corso movimenti migratori di carattere biblico dalle campagne alle città, dal sud al nord, dal nord-est al nord-ovest. Ora non è più così. Nel quindicennio intercorrente tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005 sono stati edificati 3 milioni di ettari di terreno: una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo. Contestualmente il numero degli edifici inutilizzati è cresciuto. A Roma ci sono 245.000 abitazioni vuote su 1.715.000. Una su sette. A Milano 80.000 appartamenti su 1.640.000 e 900.000 metri cubi di uffici: un volume equivalente a 30 grattacieli Pirelli. Situazioni analoghe si verificano in tutte le città di tutte le dimensioni. I terreni agricoli adiacenti alle aree urbane sono costellati di capannoni industriali in cui non si è mai svolta la minima attività produttiva. Anche la scelta di puntare sull’edilizia come volano della ripresa economica si è rivelato un errore strategico e contemporaneamente una dimostrazione di irresponsabilità ambientale perché i consumi energetici degli edifici sono superiori a quelli delle automobili. Assorbono altrettanta energia, un terzo del totale, ma solo nei cinque mesi del riscaldamento invernale.

Non ci vuole una grande competenza in materia economica, basta un minimo di razionalità per capire che per affrontare con probabilità di successo sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti ambientali-climatici della crisi in corso bisogna fare esattamente il contrario di quanto si è tentato di fare sino ad ora. Occorre indirizzare il sistema economico-produttivo a sviluppare i settori che presentano ampi spazi di mercato e, a parità di produzione, riducono l’inquinamento e il consumo di risorse, in particolare quelle energetiche. Poiché nei decenni passati, in conseguenza della sovrabbondanza di fonti fossili a prezzi irrisori l’unico obbiettivo che si è perseguito è stato la crescita della produzione di merci senza nessuna preoccupazione per le conseguenze ambientali, i settori che oggi presentano i più ampi spazi di mercato sono quelli che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse consentendo di diminuire l’inquinamento, le emissioni di CO2 e i rifiuti. Ma se cresce l’efficienza nell’uso delle risorse, diminuisce automaticamente il loro consumo e quindi, una volta che siano stati ammortizzati i costi d’investimento con i risparmi sui costi di gestione, si riduce il PIL. La decrescita guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ha le potenzialità per superare sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti energetici e climatici della crisi facendo fare un salto di qualità alla storia umana.

Con due vantaggi ulteriori. Le tecnologie con le caratteristiche indicate, che a noi sembra giusto definire tecnologie della decrescita, pagano i propri investimenti da sé, col denaro che consentono di risparmiare sui costi di gestione. E, inoltre, ridanno un senso al lavoro perché non lo indirizzano, come fanno le tecnologie della crescita, a produrre quantità sempre maggiori di merci da buttare sempre più in fretta per produrne altre senza preoccuparsi della loro utilità e/o dei danni che creano, ma a produrre con un sempre minore impatto ambientale merci con una utilità specifica. A produrre merci che siano beni per chi le utilizza e non siano un male per la terra. In ultima analisi l’obbiettivo delle tecnologie della decrescita è sostituire in misura sempre maggiore l’hardware delle materie prime col software dell’intelligenza umana guidata dall’etica e dal rispetto della vita in tutte le forme in cui si manifesta.
Riducendo il consumo di merci che non sono beni, il denaro che si risparmia deve essere necessaria-mente utilizzato per pagare gli investimenti, e i salari, gli stipendi, le parcelle, i guadagni di chi produce, commercializza, installa, gestisce e fa la manutenzione delle tecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni. Le tecnologie della decrescita sono in grado di ri-avviare un circolo virtuoso dell’economia, non solo nella logica interna dei cicli economici - più produzione, più occupazione, più domanda, più produzione - ma anche per le conseguenze positive sugli ambienti e sulla vita degli esseri umani.

È una pericolosa illusione ipotizzare che si possa uscire dalla recessione riprendendo a fare quello che si è sempre fatto. Occorre aprire una fase nuova, esplorare una nuova frontiera. Non ci si può limitare a misure di politica economica e finanziaria finalizzate ad accrescere la domanda di merci in una logica esclusivamente quantitativa. Occorre adottare criteri di valutazione qualitativa. Non ci si può limitare ad abbassare il costo del denaro per rilanciare investimenti e consumi. Occorre decidere quali produzioni si ritiene utile incentivare e quali si ritiene opportuno ridurre. Non ci si può limitare a spendere grandi somme di denaro pubblico, che tra l’altro non ci sono, per finanziare grandi opere, di cui si conosce l’inutilità a priori, solo perché si ritiene che possano fare da volano alla ripresa economica, ma occorre finanziarie opere pubbliche che consentono di migliorare la qualità ambientale e la vita degli esseri umani. Non i treni ad alta velocità, che hanno un impatto ambientale devastante, aumentano i consumi energetici e non risolvono il problema degli spostamenti quotidiani sui tragitti casa - lavoro, ma una rete efficiente di treni locali per ridurre l’inquinamento ambientale e lo stress da traffico automobilistico che assorbe anni di vita e mina la salute di milioni di pendolari. Non festeggiamenti e manifestazioni per attirare l’arrivo di un numero di consumatori più ampio di quelli che vivono nei luoghi in cui si organizzano, perché sono fuochi di paglia che lasciano pesanti eredità di edifici destinati a degradarsi progressivamente e assorbire quote crescenti dei bilanci pubblici per le spese di gestione e manutenzione. Non lo stadio del curling come si è fatto nelle Olimpiadi invernali di Torino, ma ospedali efficienti e scuole che non crollino in testa agli studenti. Non piani regolatori espansivi che autorizzano a cementificare progressivamente i terreni agricoli, ma un programma di ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente per ridurne i consumi da 200 chilowattora al metro quadrato all’anno al valore massimo di 70 vigente nella Provincia di Bolzano. Non l’incredibile miopia di puntare sulla produzione automobilistica, ma la parziale riconversione dell’industria automobilistica alla produzione di micro-cogeneratori e tri-generatori per dimezzare i consumi di fonti fossili ricavando il riscaldamento e il raffrescamento come sottoprodotti della produzione decentrata di energia elettrica, a partire dagli ospedali e dalle strutture con consumi continuativi di elettricità e calore nel corso dell’anno.

Lo sviluppo delle tecnologie della decrescita è la strada maestra per uscire dalla recessione e accrescere l’occupazione, non come un obbiettivo in sé, ma come conseguenza di lavori che hanno un senso perché consentono di migliorare la qualità della vita riducendo l’impronta ecologica, il consumo di risorse, l’impatto ambientale e la produzione di rifiuti delle attività con cui gli esseri umani ricavano dalla natura le risorse da trasformare in beni e in merci che sono beni. Se le tecnologie finalizzate ad aumentare la produttività finalizzano il fare umano a fare sempre di più, le tecnologie della decrescita connotano il fare umano come un fare bene e lo finalizzano alla possibilità di contemplare ciò che si è fatto.

Tutto ciò non ha nulla a che fare con la cosiddetta green economy, di cui tanto si parla. È indispensabile precisarlo per evitare pericolosi fraintendimenti e prevedibili fallimenti. La green economy, che ha la stessa matrice culturale del cosiddetto sviluppo sostenibile, è un tentativo di rilanciare la crescita economica potenziando alcuni settori produttivi con minor impatto ambientale, sostanzialmente le energie alternative in sostituzione delle fonti fossili. È un tentativo di cambiare qualcosa affinché non cambi niente. Noi riteniamo invece che la fase storica dell’industrializzazione fondata sulla crescita economica si stia chiudendo e sia necessario aprirne un’altra se si vuole evitare che la chiusura avvenga con un crollo che seppellirebbe l’umanità sotto le sue macerie.

La green economy e la necessità di sostituire le fonti fossili con le fonti rinnovabili è stata propugnata con forza dal presidente degli Stati Uniti, che ha trovato in Italia epigoni entusiasti in alcune associazioni ambientaliste. In realtà la politica energetica che è scaturita dai suoi buoni propositi ha riproposto le trivellazioni petrolifere in Alaska, non ha contrastato le trivellazioni petrolifere nelle profondità sottomarine, ha rilanciato il nucleare, l’incenerimento dei rifiuti, il confinamento non si sa dove della CO2. Noi invece riteniamo che la politica energetica debba in primo luogo puntare a ridurre i consumi attraverso una riduzione maniacale degli sprechi, delle inefficienze e degli usi impropri. La percentuale su cui si può lavorare è il 70 per cento degli attuali consumi, che, grosso modo si suddividono in tre grandi settori equivalenti: il riscaldamento degli ambienti, la produzione di energia termoelettrica, l’autotrasporto. Per ottenere questo risultato c’è da lavorare per i prossimi decenni in attività che ripagano i loro costi d’investimento con la diminuzione dei costi di gestione. Solo in un quadro di riduzione drastica dei consumi-spreco diventa possibile e interessante la progressiva sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili, sia perché non ha senso produrre bene l’energia e continuare a consumarla male, sia perché le fonti rinnovabili non sono in grado di offrire lo stesso apporto quantitativo di energia e con la stessa continuità delle fonti fossili.

Sebbene nessuno a parole contesti questa impostazione, nei fatti tutte le aspettative e tutte le proposte sono incentrate sulla sostituzione delle fonti, nell’attesa messianica della fonte miracolosa, pulita e inesauribile, in grado di liberare l’umanità da ogni limitazione, mentre la riduzione dei consumi viene considerata con sufficienza, come un’attività di routine, priva del fascino dell’innovazione. Forse perché è in grado di realizzare una prospettiva concreta e interessante di decrescita, sovvertendo il paradigma culturale dominante?

Ma c’è un altro elemento che incide pesantemente nel determinare il divario tra il gran parlare di fonti rinnovabili e l’assoluta insufficienza delle realizzazioni. Un elemento insito nella concezione della green economy come scelta strategica per far ripartire la crescita economica, come fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo giunto al suo capolinea storico. Ciò che sfugge ai sostenitori della green economy è che la sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili implica una ristrutturazione complessiva del sistema energetico. La maggior parte dell’energia non dovrà più essere prodotta in grandi centrali, ma in una miriade di piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete per scambiare le eccedenze. Solo in questo modo si potranno risolvere i problemi legati alla discontinuità delle fonti rinnovabili, si potrà minimizzare il loro impatto ambientale, si potranno ridurre le perdite di trasmissione. Di conseguenza, la rete di distribuzione non potrà più essere strutturata su grandi dorsali con derivazioni ad albero, ma dovrà essere reimpostata come una rete di reti locali sul modello di internet.

L’opera non è da poco, ma i problemi tecnici che pone non presentano difficoltà insormontabili. Molto più difficili da risolvere sono i problemi politici, perché ciò che si mette in discussione è il potere delle società multinazionali che gestiscono il mercato energetico. Le quali sono disponibili a investire e stanno investendo nelle fonti rinnovabili perché si rendono conto che è inevitabile, ma non possono accettare che l’autoproduzione riduca le loro quote di mercato. Non possono accettare che gli incentivi con cui i governi sostengono il settore vadano a una miriade di autoproduttori anziché a rimpinguare i loro bilanci. Con l’alibi della riduzione dell’effetto serra e della creazione di occupazione nella green economy, i grandi impianti a fonti rinnovabili oltre a devastare il paesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili delle grandi aziende energetiche. Con la copertura di tutti i partiti e di alcune associazioni sedicenti ambientaliste. E con la possibilità, sempre presente quando si sostengono con denaro pubblico attività in perdita, che una parte di quel denaro sia dirottata illegalmente in altre tasche dove non dovrebbe arrivare, come alcune operazioni intercettate dalla magistratura lasciano supporre sia accaduto o stesse per accadere.

La scelta strategica di spostare l’asse della produzione energetica su piccoli impianti di autoproduzione con scambio delle eccedenze in una rete di reti locali sul modello di internet, si inserisce nella seconda scelta strategica di una politica economica finalizzata a creare occupazione nelle tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale: l’inversione della tendenza alla globalizzazione e la rivalutazione delle economie locali. La tendenza alla globalizzazione è funzionale alla crescita della produzione di merci e ha caratterizzato il modo di produzione industriale sin dagli inizi, insieme agli altri due processi paralleli delle migrazioni e dell’urbanizzazione. Va da sé che se si identifica la crescita col benessere e col progresso, si valutino positivamente questi tre fenomeni, perché sono indispensabili per estendere il numero dei produttori e dei consumatori di merci. Ma non può sfuggire la loro relazione causale con la crisi energetica, i mutamenti climatici, le gravi diseguaglianze tra popoli poveri e popoli ricchi, l’impatto ambientale e le degenerazioni del sistema agro-industriale, i peggioramenti delle condizioni contrattuali dei lavoratori dipendenti e la crescita della disoccupazione nei paesi industrializzati.

La prima reazione agli effetti devastanti della globalizzazione si è avuta nel settore agro-alimentare con la rivalutazione dei prodotti tipici locali, delle cultivar autoctone, della stagionalità, della cucina tradizionale, delle filiere corte, dei mercati contadini. In questa inversione di tendenza, che ha assunto le connotazioni di un’alternativa globale ai prodotti insapori, avvelenati e destagionalizzati dell’agricoltura chimica, trasformati in cibi standardizzati dall’industria alimentare, trasportati a distanze anche intercontinentali, commercializzati dalla grande distribuzione organizzata, un ruolo decisivo è stato svolto da alcune associazioni di produttori e di acquirenti: i salvatori di semi e i coltivatori biologici da una parte, Slow Food e i gruppi d’acquisto solidale dall’altra. A partire dall’esperienza dei gruppi d’acquisto solidale, la rivalutazione dei modi di produzione tradizionali e la commercializzazione diretta tra produttori e acquirenti si sta estendendo al settore dell’abbigliamento con risultati sorprendenti. Aziende che lavoravano come contoterziste per grandi marchi ed erano costrette dalla concorrenza internazionale a subire condizioni contrattuali che le obbligavano a ridurre il personale, delocalizzare in paesi con manodopera a costi inferiori, utilizzare materiali scadenti e tecniche di lavorazione inquinanti, sono riuscite a liberarsi dal giogo della globalizzazione vendendo direttamente le loro merci ai gruppi di acquisto solidale. Poiché operano a dimensione locale, realizzano prodotti svicolati dalla necessità di adeguarsi alle variazioni imposte in continuazione dalla moda e saltano le intermediazioni commerciali, possono utilizzare materiali qualitativamente superiori e tecniche di lavorazione tradizionali meno inquinanti. Nonostante ciò riescono a vendere a prezzi molto inferiori a quelli delle grandi marche e al contempo più remunerativi per loro, per cui hanno rilocalizzato e assunto nuovi occupati a eque condizioni contrattuali.

Anche nell’esperienza di queste aziende la crescita dell’occupazione non è stata determinata dalla crescita della produttività e dalla ricerca spasmodica di ridurre i costi di produzione per far fronte alla concorrenza internazionale, ma da scelte di carattere qualitativo che comportano la riduzione del con-sumo di merci che non sono beni (e, quindi, una decrescita guidata del pil): capi d’abbigliamento confezionati per durare nel tempo, che con un apparente ossimoro potremmo definire di moda durevole; produzione per mercati locali e riduzione del consumo di fonti fossili per il trasporto; uso di materiali e tecniche di lavorazione ecocompatibili; patto tra gentiluomini con gli acquirenti basato sulla trasparenza del prezzo; fidelizzazione della clientela mediante una commercializzazione finalizzata ad accrescere la conoscenza di come è fatto ciò che si compra; vendita diretta senza intermediazioni commerciali. Tutto ciò testimonia la storia breve, ma ricca di futuro, delle imprese nel settore dell’abbigliamento riunite nella rete X i gas.

Evito di svolgere qualche riflessione sulla terza scelta strategica per creare occupazione potenziando le tecnologie della decrescita, perché riferendosi all’agricoltura, all’alimentazione e alla reimpostazione del rapporto tra città e campagna, ci porterebbe fuori tema. Mi limito a elencare i compiti che un movimento come il nostro può svolgere per favorire lo sviluppo di una politica economica e industriale che ci consenta di superare la fase difficile che stiamo vivendo e aprirne una nuova finalizzata a realizzare una prosperità senza crescita.

Il nostro compito principale è creare collegamenti:
a) Tra gli imprenditori e i professionisti che progettano, producono, installano, commercializzano, ge-stiscono tecnologie che consentono di ridurre lo spreco di risorse, il consumo di merci che non sono beni, i rifiuti da smaltire. Già se ne sono stabiliti. Molti di più sono quelli che si possono stabilire. Per esempio tra un pool di aziende che producono tecnologie per ridurre gli sprechi energetici degli edifici e un pool di magazzini che commercializzano materiali per l’edilizia.
b) Tra gli utenti finali che intendono ridurre i propri consumi energetici e gli imprenditori e i professionisti che sono in grado di realizzare ristrutturazioni ad alta efficienza energetica. Per esempio, le aziende che producono moda durevole potrebbero diventare ancor più concorrenziali riducendo i consumi energetici dei loro ambienti di lavoro e dei loro cicli produttivi. (ma si può anche fare l’inverso: le aziende che producono materiali e tecnologie per ridurre gli sprechi energetici possono favorire la formazione di un gas tra il proprio personale). Un gas potrebbe ottenere condizioni contrattuali migliori concordando un programma di ristrutturazione energetica delle abitazioni dei propri soci.
Per creare questi collegamenti in modo sistematico abbiamo intenzione di approntare nel nostro sito un portale in cui inserire i recapiti e una breve descrizione delle aziende che rispondono ai criteri della decrescita, suddivise per localizzazione e tipologie di prodotto.

Un secondo compito che riteniamo di dover svolgere è suggerire agli eletti nelle istituzioni proposte di politica economica e fiscale finalizzate a favorire lo sviluppo di questi settori produttivi. D’accordo con gli enti pubblici che ci ospitano e con le associazioni imprenditoriali che hanno organizzato questo incontro con noi abbiamo intenzione di riproporlo con una cadenza annuale per fare il punto sulle evoluzioni del settore.

Un terzo compito è proseguire il lavoro di formazione e di informazione per diffondere la sensibilità su queste tematiche e accrescere il numero di coloro che possono fornire un contenuto scientifico al desiderio di realizzare un altro mondo possibile. Il numero dei circoli territoriali del nostro movimento è in crescita, molti sono i giovani che partecipano alle nostre iniziative, possiamo contare su una casa editrice che diffonde le nostre elaborazioni.

Un impegno molto forte vorremmo infine dedicarlo a organizzare incontri tematici nazionali in cui far convergere docenti universitari, ricercatori, studiosi, professionisti, per costruire insieme un paradigma culturale nuovo rispetto a quello che sta arrivando al capolinea dopo più di due secoli di storia. Sentiamo il bisogno di analizzare dal punto di vista della decrescita temi come la spiritualità, l’arte e la letteratura, l’architettura, l’urbanistica e il paesaggio, il lavoro e l’otium, la tradizione e la modernità, la conservazione e il progresso. Il confronto di questi giorni sulle possibilità di indirizzare le innovazioni tecnologiche alla costruzione di una prosperità senza crescita, per noi è il primo tassello di questo programma.

venerdì 8 ottobre 2010

L'attenuante dell'immoralità

Ieri, mentre ero dal giornalio, commentando la vicenda della povera Sarah Scazzi una persona si chideva se lo zio andasse torturato o impiccato, mostrando un'indignazione secondo me completamente fuori luogo, qui in Italia.
Intendiamoci, Michele Misseri deve ricevere la giusta condanna attraverso un processo equo, ma ha il diritto a non subire che questa società gli faccia la morale, perché non ne ha proprio i titoli. Siamo la società con la sensibilità da far invidia a un elefante, capace di comunicare alla madre il ritrovamente del cadavere di una figlia in diretta TV, dove un famoso e stimato presentatore, impressionato dal decolté di una scrittrice, può chiedere al cameraman di fare un bel primo piano. Abbiamo il capo di governo che si vanta di andare a mignotte e sostiene che le donne siano 'un dono fatto agli uomini', e che per sminuire il valore di una donna racconta barzellette sulla sua bruttezza. Siamo il paese dove i sei canali televisi nazionali trasmettono l'idea di un genere femminile stupido, sottomesso e desideroso solo di farsi montare da qualche maschio. Dove secondo la Cassazione non si può parlare di stupro se la vittima porta i jeans.
A fronte di tutto ciò, la difesa di Misseri dovrebbe invocare come un'attenuante i sentimenti morbosi provati nei confronti della nipote quindicenne. Quando ciò sarà un'aggravante, allora vivremo in una società diversa.

giovedì 7 ottobre 2010

Latinoamericanocentrismo

Da qualche tempo, anche se in Europa e nel resto dell'Occidente si fa finta di niente, l'America Latina non è più la stessa, e i fatti degli ultimi giorno lo confermano.
In Ecuador, il governo del presidente Correa è sopravvissuto a un colpo di stato molto ben congegnato, probabilmente guidato da cabine di regie situate molto più lontano da Quito (come nel tentativo di deporre Chavez). L'epoca del Cile di Allende, quando bastava era piuttosto facile deporre con la forza un governo non gradito, sembra chiusa per sempre.
Infine, le elezioni brasiliane offrono uno scenario che dire interessante è poco: al ballottaggio finale parteciperanno la candidata del PT Dilma Rouseff(46%) e il candidato dell'opposizione José Serra. Ma a sorprendere è stato il risultato della candidata dei Verdi, Marina Silva, che ha ottenuto quasi il 20% dei voti. Se tutto va come dovrebbe andare, la Rouseff otterrebbe una vittoria mediata anche con i voto dei Verdi, un fatto che costringerebbe il PT a riprendere le battaglie ambientaliste troppo spesso disattese da Lula.
Per adesso, dall'Italia, possiamo limitarci a osservare una sinistra brasiliana al 65% e meditare tanto, tantissimo...

giovedì 23 settembre 2010

Viva Cosentino e abbasso Vassallo

Nicola Cosentino, parlamentare su cui pende una richiesta di arresto per concorso in associazione camorristica, ha dichiarato che il voto con cui la Camera ha negato l'utilizzo delle intercettazioni a suo carico è una misura che "rafforza Berlusconi". Venendo da una persona accusata da più collaboratori di giustizia di essere collegato al clan dei casalesi, si tratta di una affermazione sicuramente inquietante. Un suo solidale, il mistro Rotondi, ha dichiarato: "il Parlamento non è una casta ma nemmeno un'istituzione che può essere intimidita". Davvero paradossale: è la magistratura a 'intimidire', non più le mafie. Eppure il povero Sebastiono Vassallo non è stato intimidito e ucciso da giudici, bensì da quell'associazione criminale su cui le intercettazioni 'irrilevanti' facevano cadere pesanti sospetti di appartenenza da parte di 'Nick O'Americano'. Dopo il silenzio del governo sulla morte del coraggioso sindaco campano, non c'era di meglio per rendergli omaggio che impedire alla magistratura di utilizzare prove contro Cosentino. Del resto, se invece di battersi per la tutela dell'ambiente si fosse dedicato alla speculazione economica e se avesse potuto vantare guai giudiziari, siamo sicuri che ora Vassallo non sarebbe all'altro mondo ma probabilmente occuperebbe le massime leve del potere regionale e nazionale al pari del buon Nick.
In fondo Rotondi ha ragione, il Parlamento non è una casta. Dopo il voto su Cosentino e la trattativa per portare Cuffaro e l'ala siciliana dell'UDC nel governo, oramai è davvero una cosca come sostiene da tempo Travaglio. Allora sia: lunga vita a Cosentino e abbasso Vassallo.

domenica 19 settembre 2010

Onestà e buon senso non bastano

Sul sito del Fatto Quotidiano è scoppiata una polemica tra Maurizio Pallante e Michele Dotti, portata avanti attraverso i rispetti blog. Tutto è partito dalla proposta di Dotti di creare un partito del 'buon senso e dell'onestà'; così spiega:
"Io conosco un’Italia diversa, che incontro nel mio impegno di solidarietà per il Burkina Faso, nelle tante associazioni che si battono per la difesa del territorio, per un’economia etica, per l’efficienza energetica, per la dignità dei disabili, la formazione a una cultura del rispetto e dell’accoglienza.
E vedo un’Italia diversa da quella che raccontano i telegiornali, fatta di impegno, di dedizione, di professionalità nel cercare di creare nei fatti pezzi di un mondo migliore".
Pallante ha replicato, secondo me a ragione, che buon senso e onestà non sono sufficienti per creare un partito, e che anzi ritenersi unici depositari di queste virtà sarebbe un atto decisamente presuntuoso. Tale accusa è invece rimbalzata su Pallante, anche per opera di persone come Davide Bono, che ha visto del 'livore' nelle parole dell'esponente del Movimento per la decrescita felice (non trova invece nulla di strano quando il suo non-leader Beppe Grillo invita ad andare affanculo chi non si unisce alle sue iniziative).
Personalmente condivido la posizione di Pallante, ma andrei anche oltre: non solo non bastano buon senso e onestà, ma neppure la dedizione, occorrono invece progetti e idee. Anche quel mondo del non profit descritto da Dotti spesso non è esente da ombre, perché guidato da logiche caritatevoli e paternaliste che non permettono di mettere in luce le reali problematiche politiche. Se pensassimo veramente che la politica si facesse con buon senso, onestà e un po' di impegno, proporremmo solamente una versione più ragionevole del Movimento dell'uomo qualunque di Giannini o della Lega delle origini.
Diverso sarebbe se molti soggetti del volontariato e della società civile formassero una costituente per la realizzazione di un nuovo progetto politico. Sono convinto che l'unica salvezza per la Sinistra sarebbe smantellarla per rifarla da capo, creando una federazione di soggetti che si riconoscano in determinati valori e azzerando la sua dirigenza: ricreare partiti (neo)socialisti ripartenda dall'atto di fondazione. Ma perché, si chiedono in molti, rimanere ancorati a questa visione destra-sinistra quando, Grillo e Dotti docet, si può essere 'avanti'?
Forse proprio per non farsi fagocitare da logiche ispirate solo ai buoni sentimenti e al 'buon senso'.

sabato 11 settembre 2010

Giulio non se l'è andata a cercare

Francesco Cossiga ci ha recentemente lasciato, ma per fortuna è rimasto Giulio Andreotti a deliziarci con autentiche perle di saggezza. Perché, quando ha affermato che Ambrosoli "se l'è andata a cercare", ha semplicemente sentenziato una triste verità. E lui se ne intende, visto che di gente "che se l'è andata a cercare" il divo Giulio ne ha conosciute diverse, martiri come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella o Giovanni Falcone; ma anche personalità meno eroiche o sospese in una zona grigia dai contorni spesso poco chiari, come Aldo Moro, oppure autentici criminali proprio come Michele Sindona - mandante dell'omicidio Ambrosoli - il capo mafia Stefano Bontate o il corrotto Craxi.
Andreotti, invece, nel bene e nel male ha sempre saputo come "non cercarsela". E' stato presidente del consiglio del governo di 'solidarietà nazionale' tanto inviso agli USA, ma è riuscito a prenderne opportunamente le distanze senza tradire la fedele obbedienza atlantica e vedersi così la carriera compromessa. La sua definitiva ascesa politica si deve ad accordi con Cosa Nostra, ma quando si è accorto di non poterla controllare a sufficienza non ha ostentato deliri di onnipotenza e si è rassegnato, evitando la fine di Mattarella. E quando nel 1992 proverà la scalata al Quirinale, recepirà il segnale inviato con l'omicidio Lima e la strage di Capaci, rinunciando all'ambizione presidenziale.
Ma il suo capolavoro più grande è stato sicuramente l'atteggiamento con cui ha affrontato i guai giudiziari, che fanno apparire in confronto Craxi un povero dilettante.
Invece di assumere atteggiamenti improntati al "muoia Sansone con tutti i filistei" accusando la sua stessa classe politica e quindi inimicandosela, e invece di rifiutarsi sdegnosamente di sottoporsi a giudizio, ha chiesto di farsi processare sapendo che i media lo avrebbero presentato come un perseguitato, falsando qualsiasi verità processuale sfavorevole.
Una persona del genere non può che compatire il povero Ambrosoli e chi ritiene esistano dei doveri da anteporre a qualsiasi interesse personale, fosse anche la propria sopravvivenza. Sta a noi decidere a chi dei due rendere omaggio.

mercoledì 8 settembre 2010

Sindacati e automobile: il momento della verità

Alla fine Federmeccanica ha ceduto: dal primo gennaio 2012, assecondando i desideri della FIAT, il contratto dei metalmeccanici firmato nel 2008 anche dalla FIOM verrà disdetto. Le ragioni sono ben note, ossia estendere il 'modello Pomigliano' a tutta l'Italia in nome della flessibilità necessaria per competere sul mercato globale. CISL e UIL hanno già fatto sapere - ma non è una notizia - di convidere la scelta e di essere pronte a collaborare con Confindustria per questo nuovo 'patto sociale'.
Per la FIOM e per tutti coloro che non vogliono accettare i diktat dei vari Marchionne è il momento della verità, un momento storico fondamentale da cui dipende il benessere delle future generazioni di lavoratori ma non solo. Per farla breve, bisogna fare una scelta tra l'autombile e la libertà. Difendere a oltranza il vecchio modello fordista non farà altro che rafforzare la posizione degli imprenditori, i quali forse davvero hanno trovato l'unica ricetta possibile per far sopravvivere un mercato asfittico come quello automobilistico.
Ma perché questo accanimento terapeutico nei confronti dell'automobile? Perché sperare in una diffusione di massa nei paesi in via di sviluppo, accelerando il disastro ambientale? Perché riproporla nell'Occidente industrializzato che patisce da decenni le conseguenze economiche, sociali e ambientali di questa scelta scellerata?
Solo il coraggio di progettare una riconversione industriale attenta al futuro può ridare una speranza. Altrimenti, si può starne certi, a rimetterci non saranno soltanto le tute blu.

domenica 29 agosto 2010

Il prezzo da pagare

L'Italia si conferma ancora l'unico paese occidentale - o forse proprio l'unico paese in generale - a consentire a Muhammar Gheddafi di dare spettacolo sul territorio nazionale. E anche i peggiori detrattori del leader libico devono ammettere che, per essere un criminale, è davvero un istrione senza pari.
Si direbbe proprio che, quando si trova in visita in Italia, le provi tutte per vedere fin dove può tirare la corda: l'altra volta si presentò con la foto dell'eroe anti-italiani in bella vista sull'uniforme, poi disertò una conferenza organizzata dalla Camera dei deputati; questa volta invece, pur non essendo stato mai un mussulmano particolarmente accanito, ha propugnato l'Islam come religione europea. In entrambi le circostanze ha richiesto che le sue forze speciali (le famose amazzoni) presidiassero l'aereoporto di Fiumicino, in totale spregio della nostra sovranità militare.
Ma questo è il prezzo da pagare, come spiegano candidamente da Palazzo Chigi: "Le commesse che il governo ha concordato con i libici hanno aiutato le imprese italiane a fronteggiare la crisi. Gli italiani questo lo capiscono benissimo". Chi di noi in fondo non ha visto la propria carriera professionale salvata da Gheddafi?
E poi c'è l'altro pezzo di verità, ossia il gioco sporco che la Libia ricopre nel contenimento dell'emigrazione africana, sufficiente per tenere a bada la furia xenofoba leghista.
Per tutte queste ragioni bisogna tacere e sopportare, perché lo impone la realpolitik, ma almeno si potrebbe evitare l'ipocrisia. Ad esempio, il 27 gennaio si potrebbe modificare la celebrazione del Giorno della Memoria, e spiegare le ragioni per cui un capo di stato notoriamente antisemita nelle parole e nei fatti può diventare un alleato accettabile. Le stesse istituzioni ebraiche potrebbero chiarire perchè si dimostrano tanto zelanti quando qualche idiota brucia una bandiera o blatera a vanvera sul sionismo e invece sono piuttosto freddine quando viene accolto con tutti gli onori un sincero nemico di Israele e dell'ebraismo.
Non occorrono invece spiegazioni riguardo al dileggio delle donne provocato da questi show, perchè in Italia si fa ben poco per nascondere maschilismo e misoginia.
Certo se Gheddafi non esistesse bisognerebbe inventarlo, essendo una specie di genietto maligno che incarna la nostra cattiva coscienza, costringendoci a mandar giù rospi che un dittatore più sobrio ci risparmierebbe. Abbiamo voluto la bicicletta? Magari, abbiamo preferito invece fare affari (soprattutto in petrolio per le nostre automonili) e reprimere brutalmente quei movimenti migratori che noi stessi imponiamo con la nostra visione economica e politica mondiali. Se tornassimo indietro e scegliessimo la bicletta, potremmo liberarci non solo dell'invadente presenza di Gheddafi ma anche di quella di altre folkloristiche figure di casa nostra.

giovedì 26 agosto 2010

Quando Marchionne ha ragione

Sergio Marchionne, l'uomo che finora ho ammirato esclusivamente per il tenace attaccamento al maglione anche in piena estate - chissà se indossa sempre lo stesso oppure ne ha uno stock - mi ha dato un'altra ragione per stimarlo dopo il suo intervento al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, dove ha sentenziato che è necessario "un nuovo patto sociale". Dopo tante critiche, bisogna dargli atto che questa volta ha perfettamente ragione.
E' necessario che la società stabilisca una volta per tutte, nero su bianco, quali sono le priorità e gli obiettivi che si pone, altrimenti si rischiano pericolose degenerazioni arbitrarie. Potrrebbe capitare, ragionando per assurdo, che un'impresa privata, dopo aver ricevuto lauti sovvenzionamenti pubblici, si comportasse sprezzantemente come se avesse sempre pagato di tasca propria, e si sentisse in pieno diritto di smantellare la produzione italiana per delocalizzarla altrove.
Ma forse l'AD di FIAT, di cui è nota la profondità di pensiero, voleva spingersi un po' più in là con il suo ragionamento. Forse vorrebbe che la società si interrogasse sulle sue necessità reali, sulle prospettive economiche e sulla salute del pianeta: ad esempio, avrebbe senso mantenere la produzione di un comparto la cui domanda è oramai satura e e un'eventuale espansione comporterebbe gravi problematiche di carattere ecologico?
Marchionne ha perfettamente ragione anche quando teme i sabotaggi. Con i tempi che corrono, con la giustizia e il diritto ridotti ai minimi termini, si potrebbero aprire scenari veramente inquietanti. Potrebbe capitare - ammetto di essere un po' catastrofista - che qualcuno proponga accordi dove si chieda di rinunciare a garanzie costituzionali; addirittura potrebbe capitare (e qui chiedo venia perché adesso esagero davvero) che questo qualcuno potrebbe non solo imporre simili intese, ma addirittura farle approvare per poi disattenderle e chiedere continue rinegoziazioni.
Ma la parte dove Marchionne ha tutte le ragioni del mondo è quando dice: "Basta conflitti tra operai e padroni, in Italia paura del cambiamento". Ha ragione: basta! I conflitti tra opera e padroni avevano senso nella vecchia società fordista, quando si pensava che lo sviluppo industriale fosse positivo a prescindere e che l'unico problema consistesse nelle condizioni di lavoro. Oggi, con il fallimento sociale e ambientale dell'industrializzazione sotto gli occhi di tutti, i nuovi conflitti devono essere semmai tra padroni e resto del mondo.
L'unico punto sul quale ci sentiamo in diritto di correggere leggermente Marchionne è che non solo l'Italia, ma tutto l'Occidente e i nuovi paesi emergenti, ahimé, temono il cambiamento. Purroppo comandano ancora classi dirigenti che vedono nel PIL un parametro di benessere, che puntano ancora su produzioni nocive, che non sono interessate alle tematiche ambientali e sociali. Nel XXI secolo, esistono ancora imprenditori che puntano la loro efficienza sulla manodopera a basso costo alla ricerca per il mondo di paesi da sfruttare, roba da Inghilterra dell'età vittoriana. Ma il vero scandalo, e qui plaudiamo sinceri insieme a tutto il gotha confindustriale, è il sindacato: di fronte a tutti questi problemi sembra far finta di non vedere e tutto quello che sa fare è proporre timidi miglioramenti all'insegna del 'meno peggio'. Alcuni leader sindacali, poi, sembrano più in sintonia con gli imprenditori che con gli iscritti.
Per tutti questi motivi, aderiamo convinti alla proposta di Marchionne di un nuovo patto sociale. Se lo dice lui vuol dire che è proprio arrivato il momento.

venerdì 20 agosto 2010

La buona fede degli ignoranti

Lo spunto per parlare di scienza mi viene dal sito de Il Fatto Quotidiano, dove ha aperto un blog Dario Bressanini, docente di scienze chimiche e ambientali e autore del libro Chi ha paura degli OGM?. Costui è uno sfegatato difensore degli organismi transgenici, e nel blog – bisogna dargli il merito di intervenire spesso in risposta ai lettori – è solito sbandierare dati a suo giudizio inoppugnabili e accusare chi la pensa diversamente di essere ‘ignorante o in malafede’.
Io accomunerei gli scienziati come lui insieme ai fanatici dell’energia atomica, e anzi inizierei il mio ragionamento dal nucleare perché si presta meglio.
Partiamo dall’assunto – tutt’altro che dimostrato e assai lontano dal vero – che l’energia atomica non comporti rischi, che sia ‘pulita’ e che la tecnologia futura scoprirà come gestire le scorie in assoluta sicurezza, e ammettiamo persino che nel pianeta ci sia abbondanza di uranio, che invece ha già raggiunto il picco dello sfruttamento.
Perché dovremmo ricorrere al nucleare? L’ha già spiegato qualche settimana fa Veronesi: perché dalla scissione di un piccolissimo atomo è possibile ricavare un’energia enorme. Molto bene: adesso che abbiamo questa straripante energia, che cosa ce ne facciamo?
Gli USA sono il paese paradigmatico per il nucleare, in quanto dispongono di più di 400 centrali. L’enorme quantità di energia è servita prevalentemente ad alimentare un consumismo di proporzioni colossali che, nelle sue manifestazioni più blande, si manifesta sotto forma di elettrodomestici inutili (asciugapiatti, tritarifiuti, ecc) o aria condizionata sempre accesa e rigorosamente sotto i 20 gradi. Malgrado tutto questo Bengodi energetico, la società statunitense brilla per povertà, criminalità, degrado ambientale e ignoranza. Si badi bene che non accuso di tutto ciò l’atomo, semplicemente ho seri dubbi sull’equazione benessere=energia. L’acqua, ad esempio, è un bene fondamentale ma non ne occorrono 1000 litri al giorno a testa; invece sembra imprescindibile avere una fornitura casalinga da 5-6 Kw/ora. Potremmo accendere contemporaneamente tostapane, asciugacapelli, forno a microonde e lavastoviglie! Non è magnifico? Tutto ciò ci costerebbe solamente:
1) investire miliardi di euro
2) dipendere in modo massiccio da tecnologia e materie prime straniere
3) deturpare il territorio per la costruzione delle centrali
Qualche malpensante penserà che il nucleare serve per mantenere in piedi la società dei consumi e la crescita economica: chissà perché sono favorevoli a spada tratta gli industriali, mentre più si scende verso il basso nella scala sociale la diffidenza aumenta. Forse sono solo ‘ignoranti o in malafede’, come direbbe Bressanini, o forse ritengono che il loro principale problema non sia la scarsa energetica domestica. Forse osano credere che la qualità e la possibilità di accesso a sanità, istruzione, servizi sociali non dipenda dal nucleare.
E passiamo quindi al nostro poeta dell’OGM. Anche qui diamo per scontato che non esistano rischi per la salute e che la Natura sarà così gentile, per una volta, da non mutare i parassiti creando specie resistenti, così come ha fatto per i pesticidi.
Perché avremmo mai bisogno di modificare il DNA delle piante? Le ragioni sono essenzialmente due:
1) per creare colture più produttive
2) per creare specie resistenti a erbicidi e pesticidi
L’argomentazione 2 forse si può liquidare come incitazione all’uso di glifosato e altre schifezze.
L’argomentazione 1 è più complessa, prevede che esista al mondo un problema di scarsità di cibo. Tutti siamo consapevoli della fame nel mondo, gli ultimi rapporti FAO parlano di più di un miliardo di denutriti. Molti però non si immagineranno minimamente che nel 2008, anno in cui è impennato il prezzo di molti generi alimentari a seguito anche di speculazioni finanziarie, la produzione mondiale di cereali ha raggiunto il valore record di 2.232 tonnellate, un dato che dovrebbe significare la disponibilità di un chilo al giorno per ogni essere umano. Questa situazione assurda chiarisce come il problema della crisi alimentare dipenda principalmente da situazioni politiche ed economiche.
Molti paesi del sud del mondo indebitati con l'estero, su dettame del FMI, hanno creato vaste monocolture di prodotti per l’esportazione, rinunciando alla sovranità alimentare; è noto come la monocoltura sia particolarmente suscettibile a malattie e invasioni di parassiti. Ma niente paura: adesso ci pensano Monsanto e Bressanini a renderle invulnerabili. I limiti naturali potevano spingere verso il ritorno a un’economia contadina basata sull’autosufficienza alimentare, sulla filiera corta, sul recupero della tradizione, e invece la scienza ha trovato il modo di rendere congeniale un modello di oppressione neocoloniale. Nelle culture indigene le donne svolgono spesso un ruolo cruciale nella selezione dei semi, ma adesso ci pensa l’industria bio-tech occidentale, da cui bisogna dipendere a doppio filo; per l'occupazione femminile possono aprirsi prospettive di altro genere, magari nelle sovraffollate megalopoli. Tutto ciò per aumentare una produttività già sufficiente per le necessità umane – forse non per gli standard consumistici occidentali, però – e per rafforzare modelli di dominio economico. Si ricordi che la ‘rivoluzione verde’ della meccanizzazione e della biochimica è responsabile dello spopolamento delle campagne che ha creato le attuali ondate migratorie.
Neopositivisti in buona fede come Bressanini o Margherita Hack, obietterebbero che non è vero, che si possono immaginare altri modelli per queste tecnologie: il fatto è che si prestano di per sé così bene agli interessi del business che è difficile modificare questo spirito. Nucleare e ricerca genetica richiedono un livello di conoscenze e capacità tecnologiche tali da creare una cesura netta tra élite scientifica e resto del popolo, dove quest’ultimo è solo attore passivo costretto a fidarsi. Questi scienziati pensano che la produzione di più energia o più alimenti sia un bene in se stesso, senza pensare alle inevitabili ricadute sociali. Bressanini pensa forse a sfamare il mondo, ma non si interroga sull’indipendenza e la dignità dei contadini, perché lui ragioni in termini di geni e non di esseri umani. Si eccita per la resistenza ai parassiti del cotone BT, e non per le comunità contadine che attraverso il recupero della tradizione riescono ad attuare una politica di sovranità alimentare e di ripresa dell’occupazione.
Questa scienza produttivista è responsabile della guerre mondiali, della creazione di smisurati arsenali atomici e della devastazione ambientale: non ci serve più. Abbiamo bisogno di una scienza che attribuisca dignità agli uomini e alle donne e non potere di vita e di morte alle corporation, che ci permetta di vivere bene con poco e non a desiderare sempre di più; magari anche meno presuntuosa e più umile, che non tratti con sufficienza coloro che non hanno raggiunto certi livelli tecnologici. La mission della scienza occidentale, tesa a salvare dalla fame i paesi sottosviluppati, ricorda moltissimo l’opera civilizzatrice dei colonizzatori.
Quando i neopositivisti avranno compreso questi concetti, forse capiranno meglio chi è veramente ignorante e in malafede.

mercoledì 18 agosto 2010

Io non piango ma non sono il solo

Stavo per accingermi a scrivere un commento sulla morte di Cossiga, molto difficile perché da una parte non si deve mai mancare di rispetto ai morti, dall'altra non si può fare gli ipocriti fingendo di dimenticare certe vergogne. Per fortuna Nando Dalla Chiesa ha scritto sul Fatto Quotidiano di oggi un pezzo che condivido al 100%, per cui contrariamente alle mie abitudini lo quoto integralmente.


Sarò onesto, Cossiga non mi mancherà
Di Nando Dalla Chiesa

Certo non si porterà nell'aldilà solo i segreti veri di questa Repubblica. Si porterà anche i segreti da lui inventati, le trame inesistenti fatte intravedere, le panzane spacciate per misteri
Sarò onesto: non mi mancherà. Guai se la pietà per la morte offuscasse la memoria e il giudizio che la memoria (viva, ben viva) porta con sé. Non esisterebbe più la storia. E dunque, parlando di Francesco Cossiga, rifiuterò il metodo che gli fu alla fine più congeniale: quello di ricordare i morti diffamandoli, dicendo di loro cose dalle quali non potevano difendersi. Fidando nel fatto che i familiari una cosa sapevano con certezza: che se avessero osato replicargli lui avrebbe inventato altri episodi sconvenienti ancora e poi li avrebbe dileggiati, forte della sua passata carica istituzionale e della compiaciuta docilità con cui la stampa ospitava ogni sua calunnia. Fece così con Moro, con Berlinguer, con il generale dalla Chiesa. Fece così con altri. Era nato d’altronde un autentico genere giornalistico, l’intervista a Cossiga, che consisteva nel mettergli davanti un microfono o un taccuino e ospitare senza fiatare le sue allusioni, le sue bugie.

Da trasformare in rivelazioni storiche, provenienti dal loro unico e inesauribile depositario. Mi atterrò dunque ai fatti che tutti possono pubblicamente controllare. Perché ai tempi fui tra parlamentari che ne chiesero l’impeachement, anzitutto. Perché io il sistema politico di allora, quello che chiamavo il regime della corruzione, lo volevo cambiare per davvero. Ma per renderlo conforme alla Costituzione e a un decente senso delle istituzioni. Perciò mi scandalizzavo nel vedere un capo dello Stato giocare soddisfatto al picconatore, conducendo una massiccia attività di diseducazione civica. Quando poi Cossiga si mise alla testa della lotta contro i giudici, minacciando, lui presidente del Csm, di farlo presidiare militarmente dai carabinieri avvalendosi delle sue prerogative di Capo supremo delle Forze armate, pensai che la misura era colma. Che l’uomo esprimeva una cultura golpista e che era nella posizione istituzionale per tradurla in realtà politica.

Le chiavi di casa e i giudici ragazzini
Perché titolai la storia di Rosario Livatino “Il giudice ragazzino”. Esattamente in polemica con lui, che delegittimava i giovani magistrati che in Sicilia sfidavano la mafia. A questi giudici ragazzini non affiderei neanche le chiavi di una casa di campagna, aveva detto. E Livatino, morto a trentotto anni, aveva compiuto le sue prime coraggiosissime inchieste quando di anni ne aveva ventotto. Avevo imparato dai racconti di mio padre che quando si ha a che fare con la mafia chi ha un grado superiore protegge chi sta sul posto, ci passeggia insieme in piazza perché tutti capiscano. Che non è solo, che ha dietro lo Stato. Lui, capo dei magistrati, aveva invece umiliato sprezzantemente proprio i giudici più esposti negli anni della mattanza. Perchémi astenni, unico nel centrosinistra, sulla fiducia al primo governo D’Alema. Non per oltranzismo ulivista, ma perché non ero certo entrato in parlamento per fare un governo con Cossiga e con ciò che lui rappresentava nella vita del paese e nella mia vita personale. Il testo dell’intervento pronunciato in quell’occasione è agli atti. Allora mi valse richieste di interruzione da sinistra e qualche stretta di mano (tra cui quella di Gianfranco Fini). Perché l’ho spesso citato – ma non quanto avrei voluto – nei libri, negli articoli o negli interventi che avevano per oggetto la vicenda di mio padre.


Veleni attorno a un sacrificio
Perché ho sempre trovato maramaldo quello spargergli veleno intorno dopo il suo sacrificio. Non ho mai capito se fosse il seguito dell’isolamento che il sistema aveva inflitto al prefetto dopo l’ annuncio che sarebbe andato in Sicilia per combattere la mafia per davvero. Ricordo però con certezza che Cossiga iniziò a colpirne l’immagine in vista del maxiprocesso presentandolo con naturalezza come iscritto alla P2. I giudici che avevano indagato a Castiglion Fibocchi, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, mi garantirono che loro nella lista quel nome non l’avevano trovato. Lui insisté contro ogni atto giudiziario e parlamentare (della storia ho reso i particolari su “In nome del popolo italiano”, biografia postuma di mio padre, nel 1997). Finché anni dopo ancora raccontò la sua pazzesca verità: per proteggere mio padre Colombo e Turone, giudici felloni, avevano strappato un foglio dall’elenco. Non smise mai di raccontarlo. Così come, per sminuire il lavoro di Giancarlo Caselli e di mio padre contro il terrorismo, sostenne un giorno, poco dopo l’avviso di garanzia per Andreotti a Palermo, che il vero merito del pentimento di Patrizio Peci fosse di un maresciallo delle guardie carcerarie di Cuneo. Costui venne da lì lanciato pubblicamente in orbita giornalistica e televisiva per seminare nuove e inverosimili calunnie su mio padre, alcune delle quali si sono ormai purtroppo depositate negli atti giudiziari (tra i quali rimane però anche, a Palermo, il testo della controaudizione da me richiesta).

Altro verrebbe da dire, dalla memoria di Giorgiana Masi uccisa in quella famigerata manifestazione del ‘77 zeppa di infiltrati in armi, al contrasto avuto con lui in Senato, dai banchi della Margherita, sui fatti della Diaz, che lui, sedicente garantista, avallò senza scrupoli. Come e più che con Giovanni Leone, che non ebbe comunque le sue colpe, avremo probabilmente un mieloso coro di elogi. Poiché l’uomo ha incarnato alla perfezione la qualità media della nostra politica questo è assolutamente naturale. Certo non si porterà nell’aldilà solo i segreti veri di questa Repubblica. Si porterà anche i segreti da lui inventati, le trame inesistenti fatte intravedere, le panzane spacciate per misteri. Riposi in pace, e che nessuno faccia a lui i torti che lui fece alle vittime della Repubblica.

sabato 14 agosto 2010

Pupe educational

Donne-pensanti 2.0 è una web-associazione di donne che non ambiscono a fare le veline e si sono a dir poco stufate dell'immagine femminile italiana. Tra le loro battaglie, hanno contestato il programma televisivo La pupa e il secchione, credo sia superfluo spiegarne le ragioni. La responsabile del programma ha risposto alle loro contestazioni, e vi propongo il comunicato perché a suo modo è un capolavoro, un compendio del totalitarismo televisivo. Eccolo per intero, intervallato dai miei commenti:

"La protesta scatenata da un gruppo di blogger e di associazioni contro “La pupa e il secchione” è per me una buona notizia: la televisione normalmente ci scivola addosso senza provocare nessuna reazione. Si tratta però di una protesta che si basa su fragili premesse. È vero che “pupa” e “secchione” sono due stereotipi: ma gli stereotipi, da che esiste l’arte della commedia, non “sviliscono” e non “appiattiscono” ma, al contrario, ci consentono di lanciare uno sguardo all’essenziale, mettendolo letteralmente a nudo"


Ah bene, abbiamo scoperto una valenza positiva dello stereotipo! E noi che pensavamo che fosse intrinsecamente negativo! Adesso finalmente sappiamo che quando qualcuno dice "i negri puzzano" o "gli ebrei sono avari" non sta delirando idiozie, bensì sta 'lanciando uno sguardo all'essenziale'. Il Ku Klux Klan e i neonazisti insomma sono dei filosofi profondi da far invidia a Sartre e Heidegger.


"Il nostro programma non è “vergognoso” – non più di quanto lo siano le commedie di Plauto o i film di Alberto Sordi – perché non giudica e non “incita”, ma, semmai, mette in guardia. Le nostre “pupe” sono mostrate in tutta la loro palese insufficienza: tant’è che l’intera dinamica dello show ruota sulla necessità, per le pupe, di leggere, studiare e informarsi".

A dire il vero dopo il 'trattamento' non è che le pupe diventino esattamente Marie Curie o la Montalcini. E forse per capire la loro insufficienza basta farle parlare per 3 minuti, non occorrono 2 mesi di trasmissione. E forse prima di paragonare un programma Tv demenziale all'opera di Plauto bisognerebbe sciacquarsi accuratamente la bocca.


"Nella nostra televisione, invece, alle donne non viene richiesto mai altro oltre ad un corpo da esibire. Mi stupisce infine che i contestatori, e soprattutto le contestatrici, non abbiano colto un aspetto fondamentale del programma: siamo i soli a denudare i maschi, a mostrarne i corpi non proprio entusiasmanti, a ridicolizzare il modello imperante secondo il quale al maschio è concesso di essere brutto purché intelligente".

E quando mai questo scambio 'bruttezza in cambio di intelligenza' sarebbe un modello imperante? E perché allora non mettere a nudo l'insufficienza dei maschi veramente imperanti, tipo i macho e i belloni che fanno i tronisti nelle varie trasmissioni Mediaset? Mi sfugge come la ridicolizzazione dei maschi più deboli sul piano dell'immagine possa riscattare la condizione femminile. Se ciò fosse vero, si potrebbero prendere dei maschi con handicap gravissimi, sbatterli in Tv e poi dire: 'ecco donne, questo è il vostro riscatto!'.


"Ma, soprattutto, non bisogna dimenticare mai che “La pupa e il secchione” è uno show: ci divertiamo a farlo, e lo facciamo soltanto per divertire il pubblico".
Simona Ercolani Capo progetto della Pupa e il secchione

Mah sì dai, è solo per divertirci che facciamo così. C'è chi si diverte giocando a canasta o a bocce, noi invece producendo programmi con ragazze lobotomizzate. In fondo c'è stato di peggio, Plauto si divertiva con i combattimenti di gladiatori! Quindi ridateci il giocattolo e lasciateci giocare. Se per caso vostro figlio bruttino e secchione è oggetto di dileggio dei compagni e gli amici di vostra figlia usano parole come 'zoccola' o 'troia' alla stessa stregua delle preposizioni articolate, ricordatevi che stanno mettendo a nudo l'essenziale, quindi non c'è nulla di cui preoccuparsi.

A riprova di quanto sia orrenda la televisione, qualche giorno dopo il comunicato Barbara D'Urso ha invitato le promotrici della petizione nella sua trasmissione, per un 'confronto con le pupe e i secchioni'. La cosa più squallida della Tv è probabilmente il suo orrendo populismo pseudo-democratico, la sua falsa tolleranza. "Venite ragazze, in un bello studio dove siamo pronti a coprire di "buhhh" le vostre ragioni e a spellarci le mani in applausi per ogni sciocchezza dei nostri eroi; magari chiamiamo anche Sgarbi e la Mussolini in soccorso, e vediamo se voi siete così brave a urlare come a fare le intellettuali. Tanto alla fine saremo noi a fare la figura dei moderni liberali disposti al confronto, mentre voi quella dei tediosi grilli parlanti".
Purtroppo per Mediaset, queste donne-pensanti sono talmente antropologicamente diverse che non smaniano dalla voglia di apparire in Tv, e addirittura sono sospettose:

"Buongiorno,
vi ringraziamo per l’invito a partecipare alla trasmissione Domenica5 per parlare della nostra iniziativa nei confronti de La pupa e il secchione ma ci piacerebbe che il dibattito, nato in Rete, per il momento proseguisse in Rete. Crediamo che Internet sia attualmente il media più plurale e democratico per affrontare questo tipo di discussioni perché consente a tutti di esprimere la propria opinione prendendosi il tempo necessario, senza che le voci si accavallino o vengano deformate dai tempi o da chi è più capace di imporsi come purtroppo spesso accade in questo tipo di dibattiti televisivi.
E’ importante e doveroso affrontare la questione, anche in televisione, ma è necessario farlo in modo adeguato e serio, con gli autori e promotori del programma e non con i partecipanti dello stesso.
La nostra posizione è ampiamente descritta nel testo della mail inviata a Mediaset, che rialleghiamo nella sua versione integrale e ridotta e che speriamo possa offrirvi un punto di partenza per il vostro dibattito.
Le promotrici"

Spegniamo la Tv, accendiamo il cervello!

sabato 31 luglio 2010

Presi dallo sFINImento

Normalmente evito affrontare di tematiche prettamente politiche perché realizzerei delle brutte copie degli articoli de Il Fatto, quindi è molto meglio lasciarle a loro e parlare di altro. Oggi però sento di fare un distinguo rispetto al mio quotidiano di riferimento per quanto conerne la vicenda Berlusconi-Fini, sulla quale concordo con il giornalista della redazione a cui mi sento meno vicino, cioé Luca Telese. Intendiamoci subito: va benissimo sostenere il presidente della Camera al di là dei suoi meriti se questo può servire a liberarci dal duce di Arcore, però è anche opportuno non trasformare in eroi quelli che fino a ieri sono stati complessivamente dei soldati ubbidienti.
Il Fatto titola oggi: "Fini incastra il Caimano". A essere sinceri, è stato Berlusconi a cacciare Fini, non se n'è andato da solo, e dopo le avvisaglie dell'espulsione aveva persino tentato una riappacificazione sdegnosamente rifiutata. Speriamo che adesso l'ex leader di AN non cambi idea, perché su temi come il fascismo, Mussolini, l'immigrazione e la democrazia ha già dato prova in passato di forte instabilità.
Chi sono poi questi finiani, gli eredi di Grandi e dei membri del Gran Consiglio che silurarono Mussolini? Italo Bocchino ce lo ricordiamo bene per la sua verve polemica para-gasparriana nei programmi politici in tv. Luca Barbareschi, celebre conduttore di 'C'eravamo tanto amati' e altre amenità del genere, qualche mese lamentava che ventimila euro al mese di stipendio erano troppo pochi. In effetti le teste migliori non sono loro, bensì due condottieri che per le loro battaglie per la libertà hanno meritato un blog sul sito de Il Fatto. Leggiamo i loro commenti sulla situazione:
Fabio Granata: "Siamo incompatibili con un partito che esprime piena e convinta solidarietà a chi, condannato in appello per associazione mafiosa, come prima dichiarazione, proclama l’eroismo di un capomafia palermitano".
Angela Napoli: "Per il PDL i “galloni” si conquistano se intaccati dalla giustizia, altrimenti “fuori”".
Strana la vita... quando Dell'Utri era condannato 'solo' in primo grado la beatificazione di Mangano evidentemente era permessa, secondo Granata. E dov'era la signora Napoli quando venivano ricoperti di cariche i Previti, i Fitto, gli Storace, e altri indagati o rinviati a giudizio? Forse che la tradizione dei galloni sia iniziata solo con Cosentino e Brancher?
Come si sono comportati Granata, Napoli e il resto della truppa quando c'era da abolire il falso in bilancio? E nei confronti delle più di 30 leggi ad personam che dal 94 a oggi Sua Emittenza è riuscito a scucire?
Sono stato combattuto fino all'ultimo sulla necessità di scrivere un commento che anche solo indirettamente potrebbe favorire Berlusconi. Alla fine dico: lunga vita a Fini e ai finiani, autentica speranza per la caduta di questo governo mortifero. Ma per una politica diversa e migliore occorre molto di più.

sabato 24 luglio 2010

Fascino atomico

Herbert Marcuse ha teorizzato il dominio incontrastato della scienza e della tecnica come tratto caratteristico della condizione di 'schiavitù liberatoria' della società dei consumi, evidenziando come la scienza riesca a far sembrare razionali anche ciò che con la Ragione a ben poco a che fare. Peccato che il filosofo tedesco, oggi ritenuto per lo più un 'cattivo maestro' oramai obsoleto, non abbia potuto conoscere Umberto Veronesi, l'oncologo senatore del PD entusiasta dell'energia atomica, che Berlusconi vorrebbe presidente della nuova Agenzia Atomica. L'intervista rilasciata a Repubblica (http://www.repubblica.it/politica/2010/07/24/news/veronesi_nucleare-5790768/?ref=HREC1-10) fa riflettere su molte cose, e non solo suMarcuse. Basta anche solo leggere questo breve estratto:

"Sono uno scienziato, la scienza smonta le paure. Mi affascina il pensiero che un neutrone scagliato contro un atomo di uranio possa far scaturire una quantità di energia così gigantesca da risolvere buona parte del fabbisogno energetico del mondo. Il nucleare può affrancarci dalla dipendenza dal petrolio, un giogo che ha scatenato sanguinosi conflitti. Una fonte dannosa alla salute dell'uomo e a rischio di immensi disastri ambientali come dimostra la recente catastrofe alla Bp".
Nessuna alternativa?
"In questo momento no. Per il solare ritengo sia necessaria una politica di grandi investimenti nella ricerca oggi non attuabile. Le potenzialità del solare sono molto elevate, ma la tecnologia è in ritardo e i soldi per accelerarla non ci sono".
Che cosa risponde all'opposizione degli ambientalisti?
"Sono molto influenzato dalla matematica e dalla fisica, mi sono battuto perché le innovazioni nella fisica fossero introdotte nella medicina e nelle terapie per la cura del cancro. Non mi nascondo certo che la costruzione di centrali nucleari sia un'altra cosa, sia materia delicatissima e non priva di rischi, ma il pericolo di un incidente, l'unico per la salute connesso al nucleare, è ormai vicino allo zero. Credo che questa sia un'opinione condivisa dalla maggior parte degli scienziati".

Veronesi in poche righe mette molta carne al fuoco, con tematiche che potrebbero richiedere libri interi per dare risposte adeguate. Proviamo a fare una sintesi:
1) che lo scopo della scienza sia "smontare le paure" sembra opinabile. Si pensava che la scienza rispondesse alla definizione che si trova anche su Wikipedia: "Per scienza si intende un complesso organico di conoscenze ottenuto con un processo sistematico di acquisizione delle stesse allo scopo di giungere ad una descrizione precisa della realtà fattuale delle cose e delle leggi in base alle quali avvengono i fenomeni". Quindi può demolire paure o rafforzarle; questa visione 'rassicuratrice' della scienza, anche senza essere Marcuse, risulta alquanto sospetta perché fortemente ideologica.
2)il freddo e razionale scienziato si affascina all'idea di un atomo che va a sbattere rilasciando una quantità enorme di energia; forse non lo sa, ma lo stesso sentimento era provato da diversi scienziati del progetto Manhattan, malgrado la loro repulsione all'idea dello sterminio che avrebbe provocato la bomba atomica. In tutto questo c'è ben poco di scientifico e razionale, sembra forte il rischio di confondere realtà e utopia.
3) l'energia nucleare come 'ribelle' alternativa al nucleare non regge. Basta pensare a George W.Bush, il presidente petroliere che però era anche fanatico del nucleare, nonché della guerra, l'incubo da cui l'atomo dovrebbe affrancarci. Si sono mai viste campagne pubblicitarie di BP o Shell contro il nucleare? In genere i loro obiettivi sono altri.
Nucleare e combustibili fossili hanno invece molto in comune, in particolare la tendenza a rendere il cittadino-utente passivo e dipendente nei confronti del fornitore di energia, e più in generale nei confronti di chi detiene il potere.
4) se ne sono sentite tante sulle energie alternative, ma che un sostenitore del nucleare abbia la sfacciataggine di dire che 'costano troppo' è davvero il colmo. Il solo piano tra Enel ed Edf (l’ente energetico francese), in particolare, coprirà 16-18 miliardi di euro in investimenti. Se provassimo a destinare un po' di questi fondi al risparmio energetico e alle energia alternative, chissà, forse i risultati affascinerebbero anche il buon Veronesi.

Per quanto riguarda il PD, per ora si sono solo levate solo proteste legate al fatto di accettare una poltrona da Berlusconi; sul nucleare non si sono espressi perché notoriamente è un progetto condiviso da molti anche dentro il centro-sinistra. Le fascinazioni del PD, si sa, non sono meno inquietanti di quelle di Veronesi...

venerdì 23 luglio 2010

Libera FIAT in libero stato

Berlusconi è notoriamente un artista della smentita e della contraddizione, eppure, per una volta, riferendosi alla delocalizzazione FIAT in Serbia, potrebbe essere stato sincero: "In una libera economia ed in un libero stato un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione. Mi auguro però che questo non accada a scapito dell'Italia e degli addetti a cui la Fiat offre il lavoro".
Vedremo se saranno altrettanto onesti i giornalisti che dovranno commentare questo breve sproloquio logico, se lo presenteranno come una perla di saggezza.
Le delocalizzazioni nuociono sempre alla nazione di origine dell'azienda, quindi non si capisce come il trasferimento della produzione in Serbia o altrove non possa non danneggiare l'Italia: ciò è abbastanza ovvio. Meno ovvi invece sono i miliardi di euro spesi tra incentivi e cassa integrazione per sostenere l'azienda del Lingotto, almeno in "una libera economia ed in un libero stato", ma questo il Premier non lo dice.
Chi ama parlare invece è Marchionne, prontamente spalleggiato dal segretario CISL Bonanni: "I lavoratori della Fiat devono stare in guardia rispetto a tutti coloro che sanno solo speculare sulle vicende sindacali, creando confusione e preoccupazione nelle fabbriche e nel Paese", dichiarazione in risposta alle proteste della FIOM. L'AD FIAT nei giorni scorsi aveva parlato di "sindacato non serio": aveva ragione, nessuna delle sigle delle associazioni di lavoratori ha seriamente capito la posta in gioco, che non sono solo posti di lavoro o l''italianità' di un'impresa; si tratta di capire quanto il nostro stato sia ancora 'libero' come lo intende Berlusconi.

mercoledì 7 luglio 2010

Pericolo bolivariano

«Siamo al secondo tempo di un film che non può essere protratto a lungo. Non vorrei che dopo Berlusconi arrivasse Chavez...o il Parlamento riprende il suo ruolo o non c’è libertà per nessuno»
Questa frase di Pierluigi Bersani, ripresa ieri dalle agenzie e poi dai principali quotidiani, non ha destato particolare scalpore - del resto è raro che il segretario del PD ci riesca - invece merita attenzione, perché è rivelatrice di tante cose. In questi anni Berlusconi è stato paragonato un po' a tutto: a Mussolini, a Peron, a Dio, ad Al Capone, ma credo che sia la prima volta che venga tirato in ballo Chavez.
Sentendo Bersani, molta gente di sinistra, persino tra gli elettori del PD, avrà trovato motivo di speranza, all'idea che a succedere il tycoon di Arcore possa essere un presidente 'bolivariano', smentendo il leader del PD che la vede come la peggiore delle opzioni possibili. Ma perché?
Dopo tanto dibattito sul diritto di poter criticare Saviano, sarebbe inutile riproporre una sterile polemica sull'opportunità di non auspicare Chavez come capo del governo, ovviamente legittima e sacrosanta; resta però da chiedersi: ma un segretario del PD, con tutte le risorse dialettiche esistenti, è proprio necessario che lo prenda come esempio di futuro peggiore di quello attuale? Oggi, che viviamo nel governo all'insegna del sultanato e dell'impunità più assoluta, con l'immoralità elevata a regola di vita, un segretario del PD può davvero essere convinto che Chavez sia peggio di Berlusconi? Chi è più realmente populista tra i due? Era più democratico il Venezuela pre o post Chavez? E quale Italia era più liberale e pluralista, per caso quella che ha avuto origine dalla 'discesa in campo'?
E Bersani poi, è meglio di Chavez? Chi dei due è più bravo a fare breccia nel blocco sociale di riferimento? Chi dei due è stato maggiormente capace di attuare interventi concreti per il suo popolo? Chi dei due è sopravvissuto a un colpo di stato?
Chavez si può benissimo odiare, ma non mancargli di rispetto. E Bersani, con la sua improvvida dichiarazione, non solo l'ha fatto, ma ha indirettamente nobilitato colui che dovrebbe essere il vero avversario e pericolo.

sabato 29 maggio 2010

Nani e giganti

"È importante sviluppare piani di consolidamento fiscale di medio termine credibili e trasparenti. Li attueremo in modo che non mettano a rischio la crescita". Questa è la lapidaria sentenza emersa dal vertice ministeriale OCSE: mentre la crisi devasta le economie aumentando la povertà, la disoccupazione e sconvolgendo i regimi di vita di gran parte degli abitanti del pianeta, ecco la solita giaculatoria a difesa della crescita economica, senza se e senza ma. Neppure di fronte alla gravissima crisi ecologia della Louisiana, dettata proprio da quel genere di politiche volte a innalzare il PIL, si è avuta un po' di decenza. Secondo Tremonti questo vertice avrebbe fatto felice Marx, perché avrebbe messo d'accordo imprenditori e parti sociali, ma forse anche Machiavelli e Freud potrebbero dire la loro: il primo troverebbe l'ennesina conferma sul fatto che gli uomini, per la loro volontà di potenza, non ci penserebbero due volte a massacrare il loro stesso pianeta (l'homo homini lupus in confronto a quello di oggi era un'educanda, e la "golpe e il lione" oramai sono a rischio estinzione), mentre forse il padre della psicanalisi, in questo tentativo patetico di rimediare alla situazione con soluzioni già sperimentate quanto fallimentari, forse ci vedrebbe qualche influenza dell'inconscio.
Come si sa, siamo nani sulle spalle di giganti come questi grandi pensatori del passato: ma forse è meglio non farsi troppo notare e rimanere invisibili come pulci (per decantare fastidiosamente le ragioni della crescita), che al gigante non venisse voglia di levarsi di dosso qualche pericoloso parassita.

lunedì 3 maggio 2010

Cronaca da un mondo parallelo(?)

Nella notte del 30 aprile un suv imbottito di esplosivo è esploso nei pressi di Time Square, creando una mortale palla di fuoco che ha ucciso decine di persone e causato un numero imprecisato di feriti. L'attentato è stato immediatamente rivendicato dall'organizzazione terroristica Al Qaeda.
Il presidente Obama ha subito commentato che questa azione terroristica non muterà la strategia politica degli Stati Uniti, e in queste ore sta preparando l'invio di nuove truppe in Afghanistan, dove la NATO a partire da domani rafforzerà le manovre
militari con nuove azioni di bombardamento.
Dopo le aspre polemiche e le divisioni sorte a causa dell'approvazione della riforma sanitaria, della proposta di riordino della finanza e della recente marea nera provocata dal collasso di un pozzo di petrolio offshore della BP, il paese si è ritrovato finalmente unito in una sola voce: il segretario di stato ha immediatamente annunciato agli americani uno sforzo comune che prevede sacrifici e rinunce per la difesa della libertà, che diventerà l'obiettivo prioritario dell'Amministrazione. Oggi a Washington il governo si è riunito con i vertici dell'establishment del mondo dell'economia per stanziare un miliardo di dollari a sostegno dell'attività industriale militare e civile degli USA. Alla fine del summit è stato diramato un comunicato che ostenta ottimismo, malgrado il tragico evento: "L'America non cambierà".

sabato 24 aprile 2010

Bella Ciao

L'anno scorso gli stati maggiori del Centro-Sinistra avevano pensato bene di invitare Berlusconi alla manifestazione del 25 aprile, in modo che potesse impadronirsi anche dell'unica ricorrenza nazionale non ancora di sua proprietà esclusiva: abbiamo così avuto il 'presidente partigiano'. Questa occasione, unitamente alle continue prese di distanza dal passato fascista degli ex-An, faceva pensare che oramai fosse finita la campagna di odio nei confronti della Resistenza.
Un anno dopo, forse complice il nervosismo che regna nel centro-destra a causa dello scontro tra berlusconiani e finiani, si è pensato bene di rispolvere argomentazioni che nel resto d'Europa sarebbero appannaggio dell'estrema destra: a Mogliano Veneto il sindaco leghista ha proibito Bella Ciao e a Salerno Cirielli ha fatto stampare manifesti dove si ringrazia gli americani per aver liberato l'Italia e impedito e la nascita di una dittatura comunista.
Non deve allora stupire che l'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) abbia registrato un boom di iscritti al di sotto dei 30 anni, che si vanno a fradualmente sostituire ai reduci della guerra che inevitabilmente anno dopo anno lasciano questo mondo. E' un'ideale passaggio di consegne: dal fascismo da combattere con i fucili a quello da affrontare con le armi dell'intelligenza, della cultura e della sensibilità.

sabato 10 aprile 2010

La Cina è vicina, ma la Fiat di più

Scontro fra titani ieri al convegno di Confindustria di Parma, dove l’Amministrato delegato Fiat Marchionne, solitamente abbastanza sobrio e morigerato (a parole, si intende; nelle chiusura di stabilimenti e nelle delocalizzazioni è sempre stato molto più estroverso) questa volta si è letteralmente scatenato, complice la presenza del leader CGIl Epifani. Per farla breve, Marchionne ha sostenuto che l’Italia deve diventare come la Cina, e avere come punto di riferimento la vertiginosa crescita economica del colosso asiatico, stimabile nel 9,5% all’anno. "L'industria ha l'obbligo di cercare tutte le condizioni per competere, ma i sindacati invece di ripetere le stesse cantilene - qui l'ovazione dei presenti - devono diventare parte della soluzione", cioè dovrebbero accettare supinamente il massacro dei diritti dei lavoratori; e quando Epifani ha blandamente ricordato che la crescita della Cina si deve per lo più a un regime dittatoriale che impone condizioni sul lavoro praticamente schiavistiche, Marchionne ha ironizzato: "Mi fa piacere che si preoccupi della qualità della vita in Cina". Purtroppo ha parlato con tono molto meno scherzoso quando ha annunciato la chiusura della stabilimento di Termini Imerese a fine 2011.
Nonostante le bestialità affermate, l’AD Fiat è sicuramente uscito vincitore dallo scontro con Epifani, perché è riuscito a far apparire il sindacato come una palla al piede per il paese: eppure sarebbe bastato davvero poco per ribaltare la situazione e irridere le concezioni del grande industriale.
Innanzitutto si poteva chiedere qual è il senso della crescita per la crescita, interrogarsi sul motivo per cui gli italiani dovrebbero rinunciare a gran parte del loro benessere per aumentare la produzione di chissà quali prodotti, magari altri milioni di porcherie a basso costo da aggiungersi a quelle che già inondano i nostri mercati? Dovrebbero accettare condizioni ecologiche e ambientali (oltre a quelle salariali) al limite della sopravvivenza, come accade in gran parte della Cina? Per fare un piacere al fatturato della Fiat?
Ci sarebbe stato però un argomento che avrebbe spiazzato per sempre Marchionne e tutti i soloni della crescita economica: sono i cinesi stessi a consigliare di non seguire il proprio modello, e non si tratta di gruppi dissidenti di opposizione, ma delle massime autorità del regime, e non da oggi. Nel 2007 il primo ministro Wen Jiabao nella sua relazione all’Assemblea Nazionale del Popolo esprimeva il forte timore di una ‘esplosione’ della Cina, e metteva in guardia sulla necessità di vincolare l’incremento del PIL all’8%, soglia oltre la quale avrebbe significato sprecare soldi ed energie in progetti inutili e sconsiderati, a forte rischio di impatto ambientale. Per finire, Wen Jiabao si dimostrava preoccupato sul fatto che la crescita eccessiva potesse danneggiare ‘l’armonia sociale’, e questo in una nazione dove è possibile rispondere alle contestazioni in modi sicuramente molto poco ‘armonici’. (il rapporto è consultabile da varie fonti sul Web). Se quindi dobbiamo dare retta al loro stesso primo ministro, la Cina del 2010 ha disatteso l’imperativo categorico di contenere la crescita, e grossi guai sono all’orizzonte, che però toccheranno l’intero pianeta, incapace di contenere le manie di grandezza della Cina.
Contagiato dal delirio comico di Marchionne, ci ha pensato Colaninno a chiudere degnamente la serata tra l’ilarità generale della platea degli industriali: "In Cina dovremo esportare Epifani". Non sarebbe una cattiva idea farlo accompagnare da certi industriali sempre pronti a reclamare aiuti (di stato) per se stessi e sacrifici per gli altri.

martedì 6 aprile 2010

Silenzio vaticano sui cattolici vilipesi

Ancora una volta ci vediamo costretti a dare ragione agli integralisti cattolici: i cristiani sono effettivamente perseguitati nel mondo, persino nei paesi occidentali, e in taluni casi addirittura subiscono delle offese paragonabili a quelle dell’antisemitismo hitleriano, come accusava il tanto vituperato Padre Raniero Cantalamessa. Che cosa si può dire infatti di fronte a un gruppo di fedeli che si vede costretto a rinunciare alla processione pasquale perché il priore si è ritrovata l’abitazione crivellata da colpi di fucile sparati da misteriosi cecchini?
Questo fatto non è avvenuto né in Nigeria né in altra nazione soffocata da conflitti religiosi, bensì a Sant’Onofrio provincia di Vibo Valentia, in una regione come la Calabria nota per religiosità della popolazione. A dire il vero gli autori di questo gesto criminale non sono tanto misteriosi: in quel paese andava tutto bene “fin quando il vescovo di Mileto, Luigi Renzo, ha deciso di far girare per le parrocchie della provincia un "direttorio", un regolamento interno, per le "buone pratiche" nelle manifestazioni pubbliche. E tra le "raccomandazioni" del vescovo proprio quella di tenere lontane dalle processioni le "persone discusse". Un'indicazione seguita dal parroco don Franco Fragalà e dal priore della confraternita che si occupa del sorteggio dei nomi dei portatori, Michele Virdò. Un elenco che non è piaciuto ai boss” (http://www.repubblica.it/cronaca/2010/04/05/news/ndrangheta_processione_pasqua-3135498/). La colpa quindi è ben chiara: l’invito a escludere i pezzi grossi dell’Ndrangheta, che notoriamente si ritengono delle persone pie e timorate di Dio.
Il Vaticano avrebbe tutto l’interesse a diffondere questa notizia urbi et orbi, non solo per esaltare il coraggio degli ecclesiastici coinvolti e non farli sentire isolati, ma anche per dimostrare che la Chiesa non è solo quell’apparato affaristico che molti anticlericali rappresentano; anzi, è dalla parte della giustizia contro l’oppressione criminale, anche quella espressione della potenza mafiosa. Con un po’ di cinismo, si può affermare che non c’era spot migliore per redimersi in qualche modo rispetto alle accuse sulla copertura e l’insabbiamento dei casi di pedofilia commessi dai membri del clero per il mondo.
Evidentemente in Vaticano hanno preferito non approfittare di quest’opportunità, perché si è evitato qualsiasi riferimento. Durante la cerimonia pasquale, sconvolgendo il rito tradizionale (e poi dicono che Ratzinger è un conservatore!) prima del messaggio del Papa è intervenuto il Cardinale Sodano: “Tutta la Chiesa è con lei. Il popolo di Dio non si lascia impressionare dal chiacchiericcio del momento, dalle prove che talora vengono a colpire la comunità dei credenti”. A parte il buon gusto discutibile di consolare il Papa sul fatto che i fedeli, nonostante tutto, gli vogliono ancora bene, forse a Sant’Oforno potrebbero ricordare a Sodano che alcuni cristiani vengono ‘colpiti’ nel vero senso del termine, e non da chiacchiere. Del resto bisogna capirlo: uno come lui, che è stato imperturbabile nunzio apostolico nel Cile di Pinochet, difficilmente si fa impressionare da qualche pallottola sui muri.

sabato 3 aprile 2010

Necessità di decrescita anche 'virtuale'?

Siamo soliti considerare l’informatica e la Rete come degli sviluppi tecnologici che possono dare una grossa mano alla battaglia ambientalista: per quanto il processo di costruzione di un computer non sia esattamente ‘pulito’ (al contrario è molto oneroso per l’ambiente), non si può tuttavia mettere in dubbio che la digitalizzazione dei contenuti e il loro trasferimento in tutto il mondo con qualche click di mouse, ad esempio, consenta di risparmiare carta, imballaggi, trasporti e molti altri processi altamente inquinanti; lo stesso vale per strumenti come chat e teleconferenza, che permettono di annullare le distanze senza doverle coprire fisicamente.
Adesso però Greenpeace ci avvisa che non è tutto oro quel che luccica, e che un certo modo di gestire la Rete può addirittura danneggiare l’ambiente, ad opera di internauti inconsapevoli alla stessa maniera di chi, consumando una barretta di Kit-Kat, non sa di favorire il massacro degli oranghi e della foresta pluviale. Ma com’è possibile, dal momento che dal computer e dal monitor non escono emissioni di alcun genere?
“All'attuale tasso di crescita stimiamo che i data center e le reti di telecomunicazione consumeranno quasi duemila miliardi di kilowattora di elettricità nel 2020. È oltre il triplo del loro consumo attuale e più del consumo elettrico di Francia, Germania, Canada e Brasile messi insieme”. Sotto accusa in particolare sono I-Pad di Apple e il social network Facebook, i cui giganteschi server saranno probabilmente alimentati da centrali a carbone per fronteggiare la smisurata impennata energetica. Tutto ciò dovrebbe non solo portare alla promozione di campagne di opinione affinché le grandi aziende della galassia di Internet si convertano alle energie rinnovabili, ma far riflettere sul modo in cui viene gestita e impiegata oggi la Rete.
Una decina di anni fa in molti temevano che il massiccio ingresso di contenuti video e multimediali attraverso il Web (favorito dai grandi colossi dell’informazione e dell’entertainment) avrebbe alterato il carattere paritario della Rete, portando gradualmente a un modello broadcasting tipico dei mass-media come la televisione, dove gli utenti sono solo dei fruitori passivi; se tutto ciò non è successo, o solo molto parzialmente, il merito è del mondo hacker che non ha smesso di elaborare tecnologie che valorizzassero il ruolo attivo dell’internauta, e sono sorte così realtà encomiabili tipo Youtube poi diventate rapidamente business.
Ora però la Rete sembra soffrire di una sorta di gigantismo, non per il suo carattere globale che è anzi naturale, ma perché le grandi corporation come Apple la usano mezzo per la trasmissione di servizi sovradimensionati anche per il più esigente degli uomini di affari, miliardi e miliardi di bit che vanno a intasare un pianeta virtuale che, al pari di quello reale, ha capacità di smaltimento enorme ma non infinita. Che sia necessario forse pensare anche a una ‘decrescita’ della Rete? In ogni caso, dobbiamo salvaguardare questa risorsa preziosa prima che possa collassare o peggio ancora trasformarsi in un’altra delle armi di autodistruzione di massa create dallo sviluppo.