martedì 30 luglio 2013

La Terra Promessa e l'Isola che non c'è

Non è assolutamente il caso di dedicare un blog alle sparate dei politici, si correrebbe il rischio di dover rimanere connessi 24 ore su 24 postando robacce. Ma quando abbandonano i tradizionali toni della polemica spiccia e campanilistica per usare quelli visionari e profetici, allora siamo di fronte a dichiarazioni mirabili che non si possono ignorare.
Ieri Enrico Letta, nella conferenza stampa tenuta ad Atene insieme al premier greco Samaras, si è prodotto in uno slancio dialettico degno di un membro del Bilderberg: "Deve essere chiaro che i sacrifici non sono sacrifici fini a se stessi, non sono l'obiettivo, ma lo strumento per arrivare alla terra promessa'', e alla oramai sorpassata triade 'libertà, uguaglianza, fraternità' della rivoluzione francese ne ha sostituita un'altra basata su crescita, lavoro, stabilità.
Probabilmente neppure Hitler, Mussolini, Stalin o Mao sono riusciti a condensare tanta ideologia in così poche parole, rivolte per altro a persone che evidentemente devono soffrire di qualche grave forma di sindrome di Stoccolma, stato psicologico che porta una persona vittima di abusi a provare simpatia per i propri persecutori. 
Sul perché dovremmo amare la crescita, cioé il PIL, ci sono intere schiere di economisti di ogni orientamento a spiegarcelo, dai neoliberisti più estremi ai keynesiani più accaniti, attraverso delle tautologie che non reggoni a un minimo di esame critico ma, proprio perché tautologie, sono vere a prescindere. Ma il lavoro? Perché la gente dovrebbe voler lavorare nella Terra Promessa in cui il novello Mosé ci vuole condurre? Ok, non ha promesso il paradiso terrestre, ma forse per la gente comune, costretta a ritmi di lavoro infernali o al contrario ad elemosinare un lavoro, non sarebbe meglio preconizzare una riduzione del lavoro attraverso un massiccio ricorso a macchine e computer?
Ma il più sensazionale è sicuramente l'ultimo appello, quello alla stabilità. "Voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia con un piano quinquennale e la stabilità", cantava negli anni Ottanta una strofa di una canzone della punk band CCCP, ma si trattava di satira politica. Qui invece Letta, in una dichiarazione congiunta al popolo italiano e a quello greco, annuncia solennemente il diritto divino della casta dirigente a perpetuarsi, 'stabilizzandosi' attraverso strumenti quali il presidenzialismo e l'accentramento dei poteri nelle mani del governo. Almeno nella Terra Promessa biblica ci furono ribellioni a Saul e alla dinastia davidica.
Bisogna apprezzare la sincerità di Letta - o forse la sua incapacità a parlare a platee diverse da quelle dei poteri forti internazionali - per aver chiarito espressamente, senza false retoriche, i motivi reali per cui i popoli europei dovrebbero svenarsi. Bisogna essere lieti del fatto che il nostro premier non abbia speso parole per concetti futili e dannosi per lui e chi lo sostiene, quali un ambiente ecologicamente sano, una maggiore giustizia sociale, una vita più parsimoniosa ma svincolata dalla dittatura volubile del lavoro, e prenderne atto. Certo significa assumersi dei gravi rischi, ad esempio di essere tacciati per terroristi - in Val di Susa ad esempio, si stanno violando pesantemente crescita, lavoro e stabilità, e quindi scatta inevitabile la punizione. Ma la violenza non c'entra assolutamente nulla.
Molto pacatamente si tratta di spiegare a Letta e a tutti i suoi accoliti che noi, della nuova triade di valori, non sappiamo cosa farcene: saremo conservatori e obsoleti, ma ci riconosciamo ancora in quella di duecentoventuno anni fa. Alla Terra Promessa preferiamo l'Isola che non c'è.

martedì 23 luglio 2013

La goccia e il vaso

Esiste un motivo per cui degli Stati capaci di chiedere ai propri funzionari di compiere atrocità terribili, anche pubblicamente, chiedono la testa di ministri che commettono leggerezze quali non pagare i contributi alla governante e simili. Lo Stato-nazione, contrariamente ai tanti che ritengono la sua esistenza 'naturale' e 'atavica', è in realtà un misto di utopia e di coercizione, essendo l'unica forma di associazione umana obbligatoria. Hobbes, Locke e Rousseau hanno legittimato la sua esistenza parlando di un misterioso 'contratto di sociale' di cui nessuno ha mai trovato traccia, e che comunque non potrebbe impegnare in eterno anche le generazioni future del tutto ignare di questo accordo.
Lo Stato-nazione si fonda sull'idea per cui i membri dell'entità statale non solo riconoscono tra di loro una comunanza culturale, ma pensano che questa abbia anche risvolti politici ed economici: per tale ragione, gli abitanti di Corsica e Sardegna ad esempio devono sentirsi separati tra loro - per quanto le coste delle due isole siano visibili a occhio nudo - e provare invece una comunanza con Parigi e Roma.
Se viene meno questa credenza, crolla di colpo tutta l'impalcatura ideologica di legittimazione. Succede come a un cristiamo che, da un giorno all'altro, smettesse di credere in Dio: Papa, cardinali, vescovi, Vaticano ecc. che prima avevano un significato profondo, diventerebbero solo inutili e costosi orpelli burocratici. Né più né meno accadrebbe per Presidenza della Repubblica, Parlamento, Governo e quant'altro.
Quando i politici dimostrano 'senso dello Stato' dimettendosi in seguito a scandali ed errori, di fatto compiono un'importante opera di propaganda, che a poco che fare con l'etica. Il famoso caso Watergate, che vide implicato Richard Nixon, non fa eccezione: rispetto ai crimini commessi - basti pensare all'eliminazione anche fisica di dissidenti politici attraverso il programma segreto COINTELPRO o i bombardamenti del Laos e della Cambogia - aver piazzato qualche cimice nei locali di una convention dei Democratici è come fare un piccolo taccheggio al supermercato.
Per tornare alla cronaca degli scandali recenti, è evidente che ad Alfano, Berlusconi e al PDL in generale frega poco dello Stato, sono evidentemente altre le loro priorità. Eppure, come Napolitano sicuramente saprà, stanno tutti pericolosamente giocando con il fuoco. Non è ideale provocare una popolazione spremuta sempre di più dalle tasse e dai tagli, che vede il proprio voto elettorale distorto in nome dell'obbedienza a potentati sovrannazionali, e a cui una casta privilegiata senza pudore di rinunce impone  arrogantemente sacrifici. Non siamo alla vigilia della Rivoluzione francese, ma un profondo senso di disgusto e indignazione cova già da tempo, e nessuno può sapere che forme può prendere.

martedì 16 luglio 2013

Politically uncorrect

Il 'politically correct' è una terribile gabbia intellettuale che di fatto ammazza la politica e qualsiasi in dialettica in genere. Nato per nobili ragioni, è stato abilmente trasfigurato in un arma per zittire i propri avversari e ignorare in toto quanto avevano da dire solo per una parola o un'espressione infelice; i mass media sono i campioni di questa censura culturale, ed è stata un'abile stratagemma da impiegare contro persone 'scomode' ad esempio come Beppe Grillo, le quali per altro sono sempre abbastanza tonte da ricadere in questo tranello. Non c'è comunque nulla di peggio della censura che si ammanta di idealismo.
Tuttavia, ancora peggiore del politically correct è la scorrettezza politica a prescindere, quella che molte realtà dichiaratamente 'ribelli' e 'dissidenti' stanno utilizzando in questi giorni per difendere le affermazioni razziste contro la Kwenge o le minacce a Mara Carfagna non tanto perché le si condivide, quanto perché è un dovere parlare sempre a rovescio del 'potere'.
E' vero, il grado di strumentalizzazione è enorme, ma la denuncia di questa strumentalizzazione non può risolversi in una legittimazione di chi accusa insensatamente sul piano personale. Per altro la pochezza intellettuale della Carfagna o Kwenge è tale che non serve davvero insistere polemiche insensate e irrispettose.
La verità purtroppo è che molti 'dissidenti' e 'ribelli' hanno fatto propria la lezione di Berlusconi di parlare 'pane al pane vino al vino', sul fatto che gli uomini 'veri' non hanno rispetto per niente e nessuno. A queste persone consiglio di seguire un motto di Gian Piero Alloisio spesso citato da uno dei  loro idoli, Massimo Fini: "Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me".

lunedì 8 luglio 2013

Detto e non detto

Dai gesti simbolici, proprio perché tali, non bisogna attendersi rivoluzioni epocali, il che non significa che non siano importanti. Papa Francesco dal primissimo momento del suo pontificato ne ha fatto tantissimi, cosa che ha diviso l'opinione pubblica tra chi vede in lui un riformatore spirituale epocale o un'intelligente foglia di fico sugli interessi economici del Vaticano.
Di tutti i gesti, la presenza fisica a Lampedusa, un luogo davvero dimenticato da Dio, è sicuramente il più rilevante. Non produrrà effetti concreti e forse non smuoverà più di tanto le coscienze che contano, ma se non altro ha portato sollievo e conforto, almeno per il momento.
Ovviamente, quando Bergoglio dice "Sono qui per risvegliare le coscienze. No alla globalizzazione dell'indifferenza. Mai più morti in mare", il rischio è che il pontefice si strumentalizzi da solo. Perché staccare due temi indissolubilmente legati - migrazioni dei disperati e globalizzazione neoliberista - significa più o meno involontariamente legittimare il sistema produttore di disumanità e ingiustizia; lo stesso vale gli appelli del presidente della Camera Boldrini a "rafforzare il soccorso in mare" e a "riaffermare i valori universali". Difficilmente un sistema di sfruttamento può ammettere una migrazione dal volto umano, sempre ammesso che lo sradicamento di interi popoli per capricci finanziari lo possa mai consentire
Sia Bergoglio che la Boldrini devono dimostrare con i fatti di non essere semplicemente il rovescio della medaglia dei siluramenti dei barconi di Borghezio. Anzi, se si condive l'attuale sistema economico-politico globale - quello che i mass media fanno filtrare attraverso slogan come 'concorrenza' e 'libertà dei mercati' - la proposta del leghista è sicuramente più coerente, una soluzione disumana per un problema disumano.
Il Vaticano di Francesco e lo Stato della Boldrini sono alleati e complici di gran parte dei potentati che producono quelle situazioni che fanno di Lampedusa una gigantesca metastasi sociale. La denuncia di un crimine, per quanto sincera e appassionata, è poca cosa se non comprende anche i suoi per nulla misteriosi responsabili. Forse per i vari pontefici e statisti è arrivato il momento di dire tutto, o tacere per sempre.