domenica 20 dicembre 2015

Rispetto dei vivi


Come era d'obbligo commentata la morte di Cossiga, così bisogna fare con quella del 'venerabile' Licio Gelli ma, parimenti a quanto accaduto con la scomparsa dell'ex presidente, non voglio essere io a farlo. Lascio piuttosto la parola allo storico Aldo Gianulli, che introduce un tema molto delicato che condivido profondamente: la P2 non è stato un episodio accidentale, ma il tassello italiano di un mosaico molto più ampio. 

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A volte la Storia ha sottili ed ironiche allusioni e la coincidenza della morte di Licio Gelli con il procedere dello scandalo Etruria sembra una di esse.  Il venerabile e la banca erano legati da più fili, ma su questo torneremo. L’occasione si presta anche per una riflessione sul ruolo di un personaggio in tutta la storia dell’Italia Repubblicana, dal caso Borghese al caso Moro, dai depistaggi per la strage bolognese al caso Calvi. La cronaca giornalistica è spesso (e inevitabilmente) un grande appiattitore e banalizzatore e questo ha riguardato anche Gelli, rappresentato con l’immagine un po’ caricaturale dell’eterno intrigante, del faccendiere-spia e golpista che, però, alla fine, è stato sempre sconfitto.
Senza attenuare il giudizio negativo sul personaggio, credo si debba spostare la riflessione si un piano concettualmente più alto di riflessione politologica su quel che è stata la P2 che, se non è riuscita ad evitare lo scioglimento del 1981, ha però operato una sensibile trasformazione del senso del potere in questo paese. Qualcosa che è proseguita ben al di là del 1981.
In primo luogo, la vicenda della P2 è stata isolata da sul contesto culturale internazionale. Le idee del famigerato “Piano di Rinascita Democratica” non nascono dal nulla, sono parte di un vento elitario che soffia già dai primi anni settanta, se non da prima. Esse furono il prodotto della reazione elitaria ai movimenti degli anni settanta: già Niklas Luhmann aveva  letto quella crisi come effetto del “sovraccarico della domanda” (tema ripreso in Italia da Giuseppe Are), tesi presente anche nelle relazioni di Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki al convegno della Trilateral del 1975 che suggeriva rimedi istituzionali che avevano molti punti di contatto con il Piano di Rinascita democratica (rafforzamento dell’esecutivo per garantire la governabilità, eliminazione o attenuazione degli spazi di partecipazione come i referendum, sistemi elettorali che limitino l’accesso alla rappresentanza, concentrazione e controllo del sistema informativo ecc.).
Ed anche sul piano economico il piano gelliano, si poneva come “partito del profitto imprenditoriale” (e, per altri versi, della rendita finanziaria), in perfetta sintonia con il vento neo liberista che si stava levando.
Dunque, non un piccolo complotto di un paese marginale come l’Italia, ma la proiezione italiana di un profondo sommovimento della cultura politica in tutto l’Occidente. Ed, infatti, le idee di quel piano sono sopravvissute allo scioglimento della loggia nel 1981. Anzi, hanno trovato applicazione in diversi punti ad opera dei governi successivi e vale la pena di dire che la maggior parte di queste realizzazioni non si deve ai governi berlusconiani di centro destra, ma a quelli di centro sinistra a trazione Pds-Ds-Pd (ma su questo torneremo più in dettaglio).
E questo, come si sa, ha lasciato pensare che la Loggia non si è mai davvero sciolta o che essa si sia ricostituita qualche tempo dopo il suo scioglimento ufficiale ed in gran segreto con meno ben più fedeli adepti. Mentre altri (forse con maggiore realismo) hanno pensato che la P2 fosse solo il tentacolo periferico di un sistema elitario strutturato a livello sovranazionale (Brenneke nei primi anni novanta parlò di una P7). E lo stesso Gelli si è ipotizzato che non fosse il “burattinaio di ultima istanza” ma solo l’intelligente colonnello di qualche altro burattinaio di livello superiore. Si tratta di aspetti ancora in ombra della vicenda e sui quali occorrerebbe indagare alla ricerca di elementi in mancanza dei quali si rischia di scadere nel complottismo non documentato a la Magaldi con le sue superlogge che tutto controllano e tutto dirigono.
Di fatto possiamo solo constatare come la prassi dei “partiti orizzontali” delle classi dominanti (trasversali a quelli pubblici presenti nei Parlamenti) si è andato infittendo affiancando nuovi soggetti come l’Aspen, ad antichi sodalizi come il Bilderberg, la Trilateral, la Mont Pelerin Society ecc.  E’ uno dei riflessi della strutturazione elitaria ed antidemocratica del sistema di potere neo liberista.
Da questo punto di vista la P2 è un “case study” molto interessante che merita di essere approfondito al di là del canone giornalistico sin qui imperante.
Ripeto: non si tratta di riabilitare Gelli o di fargli uno sconto sulle non poche colpe accumulate, ma di portare la discussione al livello teorico che merita, anche per capire il presente. Perché la vicenda gelliana non si è conclusa nel 1981 e per certi versi può fornire interessanti chiavi di lettura anche per gli scandali presenti.
Aldo Giannuli

mercoledì 9 dicembre 2015

Elite non elitaria

Il voto per il FN di Marine Le Pen è sicuramente espressione di una forte avversione per le élite, ma da qui a dire che esso sia sgradito alle élite il passo non è affatto breve. Le èlite, cioé i maggiori esponenti del mondo economico-finanziario, notoriamente non hanno ideologie diverse dalla difesa dei loro interessi, e se storicamente sono riusciti a scendere a patti con Hitler e il nazismo, non si capisce perché non dovrebbero farlo con la Le Pen e il suo partito. In fondo, con tutta questa enfasi sul 'governo forte', potrebbe sembrare naturale affidarsi a chi davvero propone una guida risoluta o quantomeno sembra volerlo fare. Che cosa farebbe la Le Pen in caso di affermazione alle presidenziali? Far uscire la Francia dall'Euro e/o dalla NATO suona decisamente troppo propagandistico. Più probabilmente, aumenterebbero le convergenze con la Russia di Putin, secondo un copione a tratti già delineato dalla Germania in talune occasioni, con la Merkel ma anche sotto Schroeder; sarebbe alquanto difficile riproporre un protezionismo di matrice classica.
Insomma, le famigerate élite potranno aver storto il naso per il risultato elettorale di domenica, sicuramente però non si stanno strappando i capelli.

giovedì 12 novembre 2015

Lezioni di rosicate

Siccome agli argomenti seri sto dedicando tutto il tempo che mi manca per questo blog, farò una piccola lezione su come riconoscere la faziosità ricorrendo a un frivolo argomento di attualità capace però forse di accendere gli animi. 

Prendiamo in considerazione questa tesi: Valentino Rossi meritava il titolo mondiale della MotoGp 2015 più di Lorenzo. Vediamo cosa dicono i numeri stagionali:

Rossi: 4 vittorie, 1 pole position, 4 giri più veloci
Lorenzo: 7 vittorie (solo 6, dirà qualcuno), 5 pole position, 6 giri più veloci

Prendiamo allora in esame la seconda tesi: Valentino Rossi è un pilota più forte di Lorenzo. Confrontiamo allora i numeri dei due piloti dal 2008, cioé da quando corrono insieme in MotoGp:

Rossi: 24 vittorie, 12 pole position, 21 giri più veloci
Lorenzo:  40 vittorie, 35 pole position, 26 giri più veloci

Mi arriva dalla regia una comunicazione secondo cui gli anni trascorsi in Ducati non valgono. Paragoniamo allora i risultati dalla stagione 2013, da quando valentino è tornato in Yamaha:
Rossi: 7 vittorie, 2 pole position, 6 giri più veloci
Lorenzo: beh, solo nel 2015 ha fatto meglio di Rossi in tre anni, quindi lascerei perdere.

Dalla regia mi comunicano di ulteriori proteste, bisogna contare anche le stagioni 2008 e 2009.
Rossi: 24 vittorie, 12 pole position, 19 giri più veloci
Lorenzo: 31 vittorie,  26 pole position, 19 giri più veloci

Mi arrivano voci che, avendo raggiunto un ex aequo nell'ultima statistica, Rossi si impone nettamente come migliore.
Ok lo ammetto, non ho mai avuto troppa simpatia per Rossi. Ma vi giuro che ho meno simpatia per la faziosità. Sono i numeri che sembrano proprio avere in antipatia il Vale nazionale.


venerdì 9 ottobre 2015

Dalla Russia senza amore

Tristezza infinita. E' quella che provo per vedere tante persone che stimavo andare a braccetto con altre che stimavo molto meno in un appassionato atto di fedeltà per Vladimir Putin.  Ho già espresso altrove come la penso sul leader russo, in questa sede vorrei invece comunicare lo scoramento di fronte a una situazione totalmente assuda, in cui mi sembra che molta gente stia rinnegando quello in cui ha sempre creduto, senza per altro poterlo giustificare con l'opportunismo, dato che nessuno ci guadagna nulla agendo così. Siamo di fronte a una profonda revisione degli ideali.
Con Putin, abbiamo scoperto che non è vero che il terrorismo non si combatte con i cacciabombardieri; che sparare missili Cruise da migliaia di km su di un esercito poco più che straccione, facendoli passare sopra la testa degli abitanti di tre o quattro nazioni, può essere una cosa buona e giusta; che commentare su Facebook 'forza ragazzi!', riguardo a un conflitto in corso, non è uno stupido gesto da ultras calcistico, se i 'ragazzi' sono piloti dell'aviazione russa.
Ovviamente è una degenerazione che viene da lontano, ad esempio da quando bisognava condannare il 'laicismo' delle Pussy Riot (ovviamente prezzolate dalla Casa Bianca, come chiunque in Russia non ami incondizionatamente Putin) e difendere la Chiesa Ortodossa, uno dei baluardi della potenza politica del Cremlino. Tuttavia, 'no alla guerra senza se e senza ma' sembrava più di uno slogan, sicuramente lo è.
Che cosa ti fa passare sopra a tutto questo? Forse l'illusione di aver trovato uno stato da sostenere (la Russia) contro quello da sempre avversario (gli USA) in un revival post-moderno della guerra fredda? Difficile a dirsi. La coerenza dovrebbe certo avere sempre la meglio sui ragionamenti machiavellici. 
In tal senso, riporto una comunicazione personale avuta con una persona che stimavo e stimo ancora, di cui non faccio il nome per correttezza, anche perché non è proprio uno sconosciuto. Sintetizza al meglio il mio pensiero su tutta questa faccenda:

"Il mondo "antisistemico"... purtroppo è profondamente succube dello schema mentale per il quale gli USA sono il nemico principale (o forse "il nemico assoluto") e chiunque ad essi si opponga è, se non un amico, almeno un utile alleato. Confesso che anni fa ero anch'io abbastanza vicino a questo modo di ragionare. Adesso ne sono piuttosto lontano. Gli USA sono la punta di lancia del capitalismo e dell'imperialismo, ma gli altri capitalismi non sono in nessuno modo meno nocivi, sono solo momentaneamente più deboli. Anch'io sono favorevole a un mondo multipolare, pur che sia chiaro che in questa fase la multipolarità che si fa avanti è una multipolarità di distruttori."

giovedì 24 settembre 2015

Dati falsi, limiti veri

Viviamo nell'era dei dati truccati: erano noti quelli dei governi greci del primo decennio del nuovo secolo per rientrare negli stringenti parametri economici dell'euro, da sempre si sospetta sulla reale entità della crescita economica cinee, oggi si scopre che anche la stimatissima Volkswagen ha falsificato quelli relativi alle emissioni inquinanti di alcune sue autovetture diesel. Che l'integerrima etica protestante del lavoro sia stata intaccata dal lassismo dei popoli mediterranei e dalla doppiezza orientale?
Ironie a parte, sarebbe importante capire perché questi imbrogli contabili diventano sempre più diffusi. Si può ovviamente imputare tutto a un degrado sociale che mortifica le coscienze e qualsiasi onore, al capitalismo che pensa solo al profitto; tuttavia ciò presuppone due domande fondamentali: perché esiste tale degrado sociale e per quale ragione il capitalismo punta solo al profitto?
Forse, abbiamo semplicemente raggiunto dei limiti quasi (?) insormontabili, superabili solo falsificando la realtà. Economie che devono crescere, debiti che devono ridursi, tecnologie che devono evolversi - tutto ciò previsto nei nostri modelli politici-socio-economici, ma gli auspici non riescono a verificarsi o quantomeno non nella misura in cui avremmo desiderato. Allora basta ritoccare i numeri e  il gioco è fatto, almeno per un po', fino a quando qualcuno rovina l'incantesimo rivelando la verità oppure (situazione peggiore) è la verità stessa a bussare alla nostra porta, di solito con effetti catastrofici. 
Ovviamente, ci sono persone che traggono lauti guadagni da questa grande orchestra della falsità, ma anche per costoro sarebbe molto meglio ricavare profitti dal vero. Quindi va bene condannare Volkswagen, funzionari e politici corrotti, però dovremmo anche seriamente interrogarci sulla realtà del mondo in cui viviamo, in particolare sui suoi limiti. Se li vogliamo aggirare impunemente ma con successo, il mimino che possiamo attenderci è di essere sommersi da una valanga di fango.

martedì 18 agosto 2015

Tre di tre

Non credo che Matteo Salvini sappia chi sia Georges Sorel, sindacalista rivoluzionario vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma l'idea del leader leghista di bloccare l'Italia per tre giorni per mettere in crisi le casse dello Stato mi ha fatto venire in mente la teoria dello sciopero generale a oltranza del pensatore francese (il quale del resto negli ultimi anni di vita mostrò qualche simpatia per l'estrema destra fascisteggiante). 
Ovviamente, non bisogna prendere troppo sul serio gli slogan di Salvini, specialmente se coincidono con un calo nei sondaggi elettorali. Non c'è nulla di male però nel giocare con la fantasia immaginando che cosa potrebbe succedere se davvero si realizzasse un evento simile. Ad esempio, come reagirebbe la gente se si accorgesse di poter vivere per tre giorni senza quei beni di consumo che oggi come oggi vengono ritenuti imprescindibili? E senza le garanzie offerte dallo Stato?
Forse dopo tre giorni molti non vorrebbero più tornare alla 'normalità' - virgolette d'obbligo per un sistema che sta creando crisi ambientali e sociali di ogni genere. Forse farebbero anche a meno dei vari 'Matteo' - Salvini e Renzi - in un rinnovato sforzo di autodeterminazione contro le metastasi neoliberali e populiste. O forse non succederebbe proprio nulla, chissà. Sta di fatto che quest'esperienza andrebbe forse tentata. Dal diamante non nasce niente, ma persino da Salvini forse possono nascere i fiori.

lunedì 27 luglio 2015

Tagli e ritagli storici

Che la sanità sia presa di mira quando si parla di tagli di bilancio non è certo una novità. Quel che mi lascia sempre interdetto, quando sento parlare di soppressione delle prestazioni non necessarie, di eliminazione di enti inutili e soprattutto di recupero di somme evase dal fisco, è che se ne parla sempre come di ricette applicabili da subito, dando quindi implicitamente per scontato che esistono inadempienze, inefficienze e addirittura illegalità alla luce del sole che vengono tollerate per qualche strana ragione. Forse non così 'strana', dal momento che le logiche clientelari hanno sempre strizzato l'occhio agli opportunismi della politica. 
Anche le sforbiciate alle tasse si possono basare su presupposti clientelari, specialmente se il proprio partito registra un brusco crollo di consensi. Nella vittoria alle ultime elezioni europee, si parlò molto dell'effetto provocato dagli 80 euro in più in busta paga, un provvedimento tutto sommato più di 'sinistra' e comunque molto meno oneroso per le casse dello stato.
Durante la crisi greca, Padoan e Renzi hanno insistito a più riprese sulla solidità dei conti pubblici italiani, proprio nel momento in cui il debito pubblico raggiungeva il massimo storico. Del resto, anche qualsiasi cosa faccia Renzi deve per forza essere 'storica', non può accontentarsi di una manovra economica 'normale' che non 'cambia l'Italia'. In un momento delicatissimo, si sceglie sostanzialmente per un salto nel buio, non sappiamo se con o senza l'approvazione dei potentati europei (leggi Germania) e della varie troike. Quel che è certo è che bisogna stare pronti ad atterraggi poco morbidi e, qualora capiti una fila ai bancomat, occorre rimanere pazienti ed essere pronti a farne un'abitudine.

mercoledì 1 luglio 2015

Questa non è Sparta: siam più di 300

Andrea Strozzi, decrescente e blogger che collabora con il Fatto quotidiano, scommette sulla vittoria del sì al referendum greco del 5 luglio per approvare o meno le ricette economiche previste dalla UE: per mancanza di coraggio e bravura solo a parole, a suo giudizio.
Da decrescente convinto, ho paura che l'atteggiamento di Strozzi faccia da ottima sponda ai nostri detrattori, che possono così gridare all'ennesimo caso di una persona privilegiata che, una volta intrapresa la strada del downshifting e della semplicità volontaria, condanna senza appello - e persino aprioristicamente - persone in gran parte meno fortunate di lui.
Il referendum del 5 luglio è una novità assoluta nella storia recente. La Grecia ha la chance che i paesi del Sud del mondo strozzati dal debito non hanno mai avuto, se si fa eccezione per il caso argentino del 2001, che in quel caso fu opera di una sollevazione popolare contro il governo in carica. Qui invece ci troviamo di fronte a un'iniziativa 'rivoluzionaria' (virgolette d'obbligo: si tratta pur sempre di una rinegoziazione di debito camuffata) passata attraversa la perfetta adesione ai meccanismi parlamentari.
Forse, una volta che la crisi distruttiva del capitalismo senile investe i paesi occidentali, non sono più possibili le classiche tattiche violente dei potentati internazionali - non si possono condurre bombardamenti o creare le condizioni per colpi di stato - per cui è probabile che, in caso di vittoria del NO, il tanto temuto effetto contagio possa dispiegarsi anche in altri paesi dell'Europa mediterranea. Tuttavia, anche una vittoria del SI non potrebbe far dormire sonni tranquilli: ne perderebbe l'autorevolezza del governo Tsipras, smentito dal suo popolo, ma gli effetti devastanti di un ulteriore dose di austerità sicuramente convincerebbero molti greci a trovare successivamente quel 'coraggio' che Strozzi rimprovera loro di non avere.
Sicuramente il 5 maggio vota il popolo greco, ma non solo per il loro futuro. Una vittoria del NO sarebbe un ostracismo nei confronti della UE la quale, ironia della sorte, ha un atteggiamento che ricorda per molti versi l'imperialismo della Lega di Delo verso le polis satelliti. E potrebbe spianare la strada, coraggio o non coraggio, a comprendere che la differenza sostanziale tra decrescita felice e triste austerità, con buona pace di certi commentatori. 

giovedì 21 maggio 2015

Problemi di azione o di comunicazione?

Mi sono ascoltato tutta la registrazione clandestina del colloquio tra Beppe Grillo e alcuni parlamentari del M5S 'dissidenti', il cosiddetto Grillo-leaks. Se speravo di scoprire chissà quale retroscena occulto, sono stato deluso, perché dal colloquio emergono solo degli emeriti segreti di Pulcinella: che le espulsioni dal movimento sono state orchestrate da Grillo e Casaleggio, che il comico genovese - malgrado la difesa a spada tratta in pubblico - si vergognava profondamente delle performance pubbliche di alcuni pentastellati, che il gruppo parlamentare del M5S è sempre stato fortemente diviso al suo interno. Per il resto, la sonora batosta alle elezioni europee viene addebitata a 'problemi di comunicazione'.
'Problemi di comunicazione' è la stesso argomento adottata da Renzi e la sua cricca di governo per spiegare le ragioni dell'opposizione degli insegnanti alla 'buona scuola'. Ed era sostanzialmente anche il leit-motiv delle grandi organizzazioni transnazionali (FMI, Banca Mondiale, ecc.) di fronte alle nutrite contestazioni alla globalizzazione neoliberista. Questa concezione è abbastanza offensiva nei confronti dei propri interlocutori, perché sottinde implicitamente che sono degli idioti.
Ma del resto è anche naturale che con il potere si instauri una dialettica di questo genere. Secondo il grande sociologo Manuel Castells, il potere non è solo coercizione ma anche e soprattutto capacità di costruire significati nell'immaginario collettivo. Se questi significati non vengono più accettati supinamente, è inevitabile che chi li ha creati ci veda esclusivamente una mancanza di comprendonio.
Se per chi detiene il potere (Renzi) questa logica è inevitabile, per chi non ce l'ha (M5S tra gli altri) la riflessione sui 'significati' andrebbe ulteriormente approfondita. Vediamo alcune spiegazioni plausibili:

1) i 'significati' non esistono, oppure solo sono degli slogan che cozzano palesemente con la realtà. 'Uno vale uno' sembrerebbe rientrare in quest'ultima ipotesi;
2) i 'significati' non fanno presa sulle menti delle persone perché non li convincono o perché non sono sostenuti adeguatamente. Vedi le proposte del 'sacro programma' pentastellato;
3) ti sei adeguato ai 'significati' del tuo avversario, vedi discussione incentrata esclusivamente su legge elettorale, ritorno alla crescita, ecc. E qui rieccheggiano le parole sconsolate di Grillo nel nastro clandestino, 'siete diventati dei politici'...

In ogni caso, c'è solo una certezza: per chi è al potere, 'comunicare' è un imperativo categorico, per chi non lo ha è il 'fare' ad assurgere a priorità. Problemi di azione, forse, più che di comunicazione. 



martedì 5 maggio 2015

Ave Matteo, rottamatori te salutant

Scrive dalle pagine dell'Huffington Post Italia Marco Gray (presidente dei giovani imprenditori di Confindustria) per sostenere l'Italicum:

"L'Italicum forse non è perfetto, ma è stato pensato, discusso, modificato, votato, ridiscusso e rivotato per 14 mesi. In 14 mesi il prezzo del petrolio si è dimezzato e gli USA hanno quasi raggiunto l'indipendenza energetica, Alitalia è stata venduta agli Emirati Arabi e la Fiat ha trasferito la propria sede ad Amsterdam, la Cina è il primo Paese per PIL con più di 17mila miliardi di dollari; in Italia, un giovane uno su due è diventato disoccupato".

Ora che l'Italicum è legge dello Stato, Gray (insieme a Renzi e a tutta la sua cricca) sarà alquanto soddisfatto, io invece sono terrorizzato all'idea di aver consegnato un potere quasi assoluto a persone che, come il 'giovane imprenditore', si fanno allettare dalle false promesse del fracking, vedono la Cina come un esempio da imitare, ritengono che l'automibile debba essere un elemento centrale della politica industriale anche per il futuro. 
Almeno però, pensano in molti, una volta finita la discussione sulla legge elettorale, governo e parlamento potranno finalmente occuparsi delle questioni 'serie'. Una militante del PD siciliano mia amica su Facebook scrive stamattina dal suo profilo, commentando l'approvazione dell'Italicum:

"Comprendo i dubbi e in parte li condivido, e' altrettanto vero che difficilmente possa realizzarsi una riforma "ideale", tutto è perfettibile certo ; e' più realista pretendere che i politici SVOLGANO IL LORO LAVORO SERIAMENTE ! Il contesto adesso è questo! ci occupiamo del lavoro finalmente?"

 Quello che sembra sfuggire, a lei come a molti militanti del PD, è che il governo Renzi si è già abbondantemente occupato lavoro varando il Jobs Act. Idee un po' confuse da parte di qualcuno?
Anche i più grandi detrattori del capo del governo - e il sottoscritto si iscrive senza riserva a questo partito di 'gufi' - non possono fare a meno di riconoscere due fatti inequivocabili:

- la segreteria di Renzi è di quelle che lascerà un 'prima' e un 'dopo' ben definiti all'interno del PD. I vari bersaniani, dalemiani, cuperliani, rosibindettiani, lettiani, 'minoranza dem' ecc. che pensano di poterlo scalzare non possono illudersi di operare qualche ipotetica restaurazione, anche perché il PD fin dalle origini è stato null'altro che un brand, una scatola vuota. E diciamoci la verità:  Matteo Renzi ha fatto gran parte di quel lavoro 'sporco' - in particolare in materia di lavoro - che loro non sono mai stati capaci di potare a termine;
- Renzi, dopo la vittoria alle primarie, ha sempre parlato abbastanza chiaro riguardo alle sue idee in materia di lavoro, ammettendo candidamente di riconoscersi nei vari Ichino, Zingales, Marchionne e Davide Serra di turno. Ha riferito a Obama il suo intento di trasformare il Partito Socialista Europeo in 'Democratico' per rottamare per sempre qualsiasi riferimento alla socialdemocrazia. 

Renzi insomma è quello che è, ma ha le idee molto chiare e si fa pochi scrupoli per metterle in pratica: sono altri nel PD, a vario titolo, a dover finalmente prendere una posizione netta, inequivocabile e soprattutto coerente con quello che - volenti o nolenti - è diventato il loro partito.

domenica 19 aprile 2015

I Draghi e la Freemont

"Nemmeno 600 milioni di euro destinati a piovere sulle buste paga dei lavoratori Fiat riescono a ricucire il fronte sindacale che si contrappone a Sergio Marchionne", sbotta il giornalista Flavio Bini dalle pagine dell'Huffington Post Italia, il quale, con uno dei suoi soliti titoli a effetto, aveva annunciato che 'Marchionne mette fine al conflitto capitale-lavoro', per la scelta di legare unilateralmente gli aumenti contrattuali agli utili aziendali di FCA ('far partecipare i lavoratori agli utilizi aziendali', nel linguaggio delle PR).
Con ogni probabilità, si tratta di uno dei più grandi successi del padronato degli ultimi anni, perché slega gli aumenti da qualsiasi competenza o 'merito' dei lavoratori (per usare espressioni molto in voga) per sottometterli ad azioni di responsabilità esclusiva del management perché, a differenza di quanto accade in Germania, i sindacati non sono membri del consiglio di amministrazione. Destini dei lavoratori che dipenderanno da capolavori tecnologici quali la Freemont.
Ma di cosa preoccuparsi, la ripresa economica non è forse arrivata? Su Repubblica, leggiamo di un Mario Draghi rinsavito dall'attentato ai coriandoli precisa che "i driver sono bassi prezzi del greggio e le nostre decisioni di politica monetaria", cioé insomma ci troviamo di fronte a una situazione totalmente artificiosa, che non può durare nel tempo, forse giusto il tempo che si inceppi la 'locomotiva' statunitense, che dovrà fare i conti con il picco dello shale gas. Prima ci rendiamo conto di tutto questo ed è meglio per tutti, passando da Landini a Marchionne.

mercoledì 1 aprile 2015

Estremismo stabilizzatore

Alla faccia dei tanti ammiratori, anche sinistroidi, del Front National di Marie Le Pen, il centro-destra gollista è resuscitato alle elezioni amministrative francesi, ottenendo probabilmente il più grande successo della storia (si fa per dire, quando l'affluenza alle urne fatica ad arrivare al 50%). Persino un impresentabile politico come Nikolas Sarkozy è riuscito a tornare alla ribalta.
Ho la netta impressione che, a parte qualche fuoco di paglia locale, in tutti i paesi i vari estremismi di destra saranno sconfitti dal loro corrispettivo 'moderato' (che in Italia ad esempio prenderà l'aspetto del PD) e tutto ciò rafforzerà l'impressione che ho sempre avuto, cioé che l'estremismo di destra, malgrado tante giaculatorie sulla sovranità nazionale e l'uscita dalla UE, sia funzionale ai vari potentati neoliberale, di destra o di sinistra che siano.
E' vero, il FN ha ottenuto il 40% dei consensi, per cui al netto dell'astensione riceve il sosteno di circa il 25% dei francesi, ma sarà sufficiente per fermare la coalizione rosso-blu (a questo punto decisamente più blu) che sosterrà a spada tratta il candidato presidente opposto alla leader del FN? Molto improbabile.
Insomma, l'estrema destra mi sembra un ottimo strumento al servizio delle strategie il cui fine è cambiare tutto per non cambiare niente, utile per prendere elementi di contestazione reale (la dittatura bancaria europea, ad esempio) e gettarli alle ortiche snaturandoli; mentre le coalizioni 'avverse' si sentiranno 'costrette' a qualche misura anti-immigrazione più severa e/o a qualche trovata a effetto sulla 'sicurezza'.
Matteo Salvini, avendo forse fiutato l'aria che tira, è tornato sui suoi passi accettando l'accordo con Forza Italia, una manovra probabilmente non piaciuta a Casa Pound e agli altri improvvisati alleati di questi ultimi tempi. Tutto sembra pronto per il solito copione: affluenza ai minimi storici e 'straripante' affermazione del PD, che permetterà a Renzi di vantarsi di essere un 'vincente'. Anche in Italia, si direbbe che l'estremismo di destra, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo

mercoledì 18 marzo 2015

Vincere? No, partecipare

Tommaso Ederoclite, politologo membro della segreteria napoletana del PD, scrive sul suo blog sul Fatto che il progetto di Coalizione Sociale di Maurizio Landini è destinato inevitabilmente a rivelarsi un flop. Il suo punto di vista di dirigente del PD - cioé il partito oggetto della contestazione di Landini - lo trovo decisamente naturale, mentre dal mio punto di vista - cioé di persona allergica a discorsi paleo-socialdemocratici/keynesiani incentrati sulla ripresa della crescita ma ancora più allergica all'austerità in salsa neoliberale - non posso negare alcuni aspetti positivi che, guarda caso, coincidono spesso e volentieri con quelli che secondo Ederoclite sono i gravi limiti del progetto. 
Innanzitutto, lo scontro interno con la segreteria della CGIL serve solo a fare chiarezza. La maggiore organizzazione sindacale, malgrado le critiche (inevitabili) espresse nei confronti degli ultimi governi di centro-sinistra, è ancora molto accucciata sulle posizioni del PD, spesso per motivazioni che esulano dalla politica (almeno da quella nobile). Un segretario che esalta Marchionne e ha come maggior finanziatore un banchiere con frequentazioni alle Caiman e da ciò sforna politiche che neppure Berlusconi talvolta avrebbe osato, non meritita alcun sostegno da parte dei lavoratori.
Il fatto poi di aver aperto il nuovo soggetto politico a realtà dell'associazionismo e dell'impegno civile, evitando i più che stantii partiti della cosiddetta sinistra radicale, è un altro importante merito, ovviamente se la strategia di base è quella di ampliare la base del confronto e il concetto stesso di politica (che troppo spesso i partiti ritengono prerogativa ristretta ai luoghi istituzionali). Ederoclite, in pure stile PD renziano, ammonisce che così 'non si vince', e se l'idea è ragrenellare voti e qualche poltrona ha ragione.
Ma se lo scopo è ricostruire una nuova cultura della solidarietà, del lavoro e dell'ambiente, allora ciò varrebbe più di mille trionfi elettorali. Perché quello che Ederoclite fatica a capire è che non si tratta tanto di dare vita a Syriza o Podemos in salsa italica, bensì di dimostrare che certi valori appartengono ancora legittimamente al campo della politica mentre altri ('merito', 'rottamazione', 'governabilità') sono intrinsecamente antipolitici.
Landini è un condottiero che può guidare il rinato popolo della sinistra in stile Lenin? Assolutamente no, ammesso che ci sia bisogno di una simile figura (non credo proprio) Ma, tra intuizioni corrette e diversi errori di impostazione, ha capito che i tempi sono profondamente cambiati e la sua iniziativa può catalizzare forze positive, anche diverse da quelle che il segretario della FIOM si aspetta di coalizzare.

mercoledì 25 febbraio 2015

Papa Mattarella

E' ovviamente troppo presto per fare un bilancio esaustivo della presidenza di Mattarella, ma alcune indicazioni di massima si possono certamente trarre. 
L'impronta mediatica che vuole dare al proprio settennato è ben diversa da quella del suo predecessore: Napolitano era apertamente schierato 'dalla parte delle riforme' (era quindi uno dei principali sostenitori del patto del Nazareno e di Renzi) mentre Mattarella vuole apparire sicuramente più super-partes, si veda anche l'invito di oggi al Quirinale dei gruppi parlamentari di opposizione. 
Sta inoltre cercando, attraverso espedienti come il ricorso alla Panda al posto dell'autoblu o la scelta di Alitalia al posto del volo di stato, di darsi un tocco un po' in stile Papa Francesco, se non addirittura Pepe Mujica, all'insegna della 'sobrietà' - per davvero, non come quella di Monti che era solo grigiore - che sappia riconciliare gli italiani con la politica e le sue spese pazze e soprattutto immorali in periodo di crisi. 
Certo, l'appello ai magistrati per cui 'non siano protagonisti' è in pura salsa napolitaniana. E, se persino la presidente della Camera Boldrini si è sentita oltraggiata dall'atteggiamento autoritario del PD renziano nel condurre in totale solitudine a colpi di maggioranza semplice il percorso delle riforme, costituzione compresa, Mattarella non ha detto assolutamente nulla al riguardo.
La prova del nove, ovviamente, sarà costituita dalle firme che saranno apposte o meno ai provvedimenti più controversi. Sappiamo giù come si comporterebbero Papa Francesco o Pepe Mujica.  

sabato 7 febbraio 2015

Stato di eccezione

"Colpiremo ovunque" è una classica minaccia terroristica. Questa volta a pronunciarla non è l'ISIS ma il governo giordano, che ha anche parlato di 'rappresaglia' in risposta al crudele omicidio del pilota della loro aviazione. 
Molti commentatori si sono affrettati precisando che gli stati democratici non commettono né vendette né rappresaglie, ma la Giordania, ricordiamolo bene, non è uno stato democratico. Del resto, anche gli stati democratici spesso possono comportarsi come tali in patria ma non al di fuori di essa - nazioni colonizzatrici, politica statunitense del XX secolo e Israele docet. 
Ma che cosa verrà colpito 'ovunque'? Il territorio dello 'stato dell'ISIS'. Mi fa uno strano effetto chiamarlo così, perché una condizione necessaria (non sufficiente) per essere 'stato' consiste nel riconoscimento internazionale: non sei 'stato' se non vieni riconosciuto dalla 'comunità degli stati'. Se bastasse qualche occupazione di territori, una proclamazione e dei governanti autoproclamati, lo stato palestinese esisterebbe da almeno trent'anni. L'esistenza dello 'stato islamico' è riconosciuto persino da Wikipedia. Ma se uno stato compie operazioni militari , allora queste non sono più definibili come atti di terrorismo, bensì di guerra in piena regola. Perché riconoscere tale legittimità a un nemico per lo più ritenuto orribile e spietato, al punto che la sua popolazione è bombardabile a piacimento?
La Russia invece è una stato a tutti gli effetti, malgrado molte inimicizie importanti. La Merkel e Hollande, secondo i media occidentali, stanno trattando un 'piano di pace' con Putin, facendo intendere un forte rischio di guerra.
A causa di chi? Dell'autocrate russo? Forse la Merkel e Hollande farebbero bene a trasferirsi da Monaco (sede dell'incontro con Putin) a Bruxelles, dove il comandante supremo dell'Alleanza, Philip Mark Breedlove, caldeggia un intervento militare in Ucraina - in pratica la terza guerra mondiale, un episodio che ricorda moltissimo l'aspirazione di MacArthur di invadere la Cina durante la guerra di Corea, con la differenza che per Breedlove non sembrano esserci defenestrazioni in arrivo.
Una decina di anni fa, un amante delle costruzioni intellettuali come Toni Negri fantasticava di 'impero retto da una guerra permanente'. Ha avuto torto due volte: 'l'impero' si sta pericolosamente sbriciolando in zone di influenza, mentre la 'guerra permanente', fatta per lo più di invasioni neocoloniali e reazioni terroristiche, rischia di degenerare nel conflitto aperto tra grandi nazioni, con tutti i rischi nucleari che ciò può comportare.  Dalle speculazioni d'accademia ai fatti concreti, il passo sembra sempre più breve.


martedì 20 gennaio 2015

Cultura e impostura

Il 'multiculturalismo' è sotto attacco da più parti, da ben prima del drammatico attentato alla sede di Charlie Hebdo. Generalmente, con questo termine si indica la tendenza a far convivere insieme diversi gruppi etnici e religiosi, senza cercare di plasmare un'identità basata sull'adesione a valori comuni. 
E' una situazione un po' paradossale: se tutti veramente 'fossimo Charlie', allora avremmo trovato davvero una base comune su cui riconoscerci ma, siccome Charlie Hebdo si caratterizza per essere  'più a sinistra della sinistra', ciò significherebbe la massima libertà di espressione e relativismo culturale per tutti.
Ovviamente, il motivo per cui improvvisamente siamo tutti 'diventati Charlie' non è legato alla satira politica estrema, che sembrava ben poco apprezzata non solo dall'Islam ma anche dall'Occidente che conta, bensì al fatto gli autori erano cittadini occidentali uccisi da agenti sedicenti rappresentati di una civiltà considerata inferiore. Se così non fosse, non si spiegherebbe la reazione del tutto apatica per il successivo massacro di Boko Haram, che ha coinvolto centinaia di persone, addirittura duemila forse.
Discutendo del multiculturalismo bisogna evitare la trappola di fondo, cioé imbarcarsi in una discussione favorevole/contrario in perfetto stile talk-show. Bisognerebbe prima tutto chiedersi perché si è creata una situazione di multiculturalismo, ovvero perché ci sono persone provenienti da Africa, Asia e America latina in Europa e Nord America; e se le ragioni non hanno a che fare con il turismo, vanno investigate più a fondo.
Detto in parole povere, un immigrato dal Sud del mondo cerca di intraprendere lo stesso percorso del plusvalore che ha inizio con l'esportazione delle materie prime del suo paese. Se si ragionasse anche sul 'come' tali materie prime lasciano la terra d'origine, probabilmente saremmo già a buon punto per trovare una risposta soddisfacente anche sull'origine e la popolarità del fondamentalismo islamico. 
Insomma, una 'cultura comune' passa per un'analisi condivisa della realtà, se non altro sugli aspetti più salienti. Altrimenti, tutto si riduce a imporre una propria visione e conseguentemente una propria dominazione. E' inutile parlare di libertà e uguaglianza, quando è palese che non tutti i popoli della Terra sono ugualmente liberi e uguali, anzi alcuni non lo sono per niente. E molti di questi popoli, non accettando di autoghettizzarsi, potrebbero sempre più propendere per scelte estreme.

venerdì 2 gennaio 2015

Il presidente rivoluzionario

"Stiamo dalla parte del lavoro. Il lavoro lo crea chi fa impresa di qualità. Ascoltare l'impresa non vuol dire fare dei favori ma essere ossessionati dall'idea di creare lavoro... La democrazia si salva dal populismo solo quando sa decidere nei tempi giusti. Stiamo provocando una grande rivoluzione e questo crea malumore. Ma una democrazia che decide non è deriva autoritaria né incapacità di ascoltare, né arroganza".
Parola del probabile futuro presidente della repubblica - Silvio Berlusconi permettendo - Graziano Delrio. E' inutile lamentarsi anzitempo, specialmente se il presidente uscente si è caratterizzato per l'assoluta mancanza di qualsiasi zelo per la difesa della Costituzione di cui sarebbe teoricamente garante. Il prossimo probabile presidente, se caratterizzerà il suo mandato attraverso 'l'ossessione di creare lavoro' e l'enfasi sui 'tempi giusti', non sarà troppo peggio del suo predecessore. Cerchiamo di ragionare su questi due elementi.
La parola 'ossessione' indica un comportamento al limite del patalogico, e associarlo alla creazione di lavoro significa anteporla a considerazioni di qualsiasi altro genere: quindi sì alla TAV, alle trivelle alla faccia delle preoccupazioni ambientale; sì a forme contrattuali sempre più flessibili.
Sui 'tempi giusti', è abbastanza evidente che un 'sì', specialmente se incondizionato, si pronuncia in pochi secondi, mentre un 'no', a causa delle discussioni a cui può dare seguito, dilata sensibilmente i tempi e non si addice evidentemente a una 'grande rivoluzione'. 
Forse il presidente 'rivoluzionario' promuoverà, oltre alle riforme già in cantiere, altre modifiche costituzionali, anche dell'art.1: L'Italia è una repubblica tempestivamente democratica ossessionata dal lavoro.